Spettacoli

Ul falò dal dialètt

Elisabeth Alli e Franco Lurà ci raccontano la puntata speciale di Falò del 5 dicembre, interamente in dialetto, lingua non solo della famiglia ma anche egli affari

30 novembre 2019
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Tutto in dialetto. Non qualche parola o frase, ma tutta la puntata di Falò del 5 dicembre – in onda alle 21.10 su Rsi La1 –sarà in dialetto, anzi in dialètt: una dimostrazione non solo della vitalità, ma anche della versatilità del dialetto che trova il suo spazio non solo in famiglia, ma anche in politica, negli affari e, appunto, in televisione.
Autrice del documentario che farà da guida alla puntata “Ul falò dal dialètt”, Elisabeth Alli che abbiamo incontrato insieme al suo consulente linguistico, Franco Lurà, già direttore del Centro di dialettologia.

Elisabeth Alli, come mai un Falò in dialètt?

Il dialetto è la lingua che ha accompagnato la mia vita in Ticino ed è un po’ una tristezza leggere che è sempre meno parlato – io stessa ho sempre meno occasioni di parlarlo. Volevo quindi sapere dove si parla ancora dialetto: così sono andata dai produttori di Falò – Roberto Bottini, Gianni Gaggini e Michele Galfetti – e non me l’aspettavo ma mi hanno detto subito di sì. Abbiamo cercato un consulente, Franco Lurà, e siamo partiti con l’idea di qualcosa di leggero, un po’ spiritoso, ma facendo emergere anche temi importanti.

Franco Lurà, il dialetto è una lingua o ‘qualcosa di meno’?

Il dialetto è indubbiamente una lingua e ha la piena dignità di esserlo al pari di francese, tedesco, italiano e così via. Semplicemente, non ha avuto lo stesso riconoscimento sociale: dal punto di vista linguistico non c’è alcuna differenza che possa giustificare una classificazione diversa, è solo una questione d’uso della lingua.
E penso che il nostro lavoro lo dimostri, perché quando Elisabeth mi ha chiamato ero un po’ titubante: di servizi sul dialetto ne sono stati fatti tanti e si rischiava di proporre cose già viste e già sentite. Ci siamo trovati a discuterne e abbiamo trovato una strada diversa, e secondo me originale: smentire uno dei luoghi comuni sul dialetto, quello dell’ostacolo alla vita sociale, dell’impedimento all’affermazione personale. L’idea è stata cercare il dialetto là dove non lo si aspetta. Eccellenze nei vari campi, trovare persone che si sono dimostrate capaci di occupare posti di rilievo pur parlando dialetto per tutta la loro vita e spesso anche nelle situazioni lavorative. Sempre con quell’approccio leggero di cui si diceva.

Non è quindi solo la lingua di casa, degli affetti.

Il dialetto è sicuramente una lingua dell’intimità, della sfera familiare, ma può essere benissimo la lingua di altri contatti. L’importante è che non sia una lingua di chiusura, non sia ripiegata su se stessa ma sia veicolo di una mentalità aperta. E il servizio lo dimostra: scopriremo che anche nel cuore pulsante dell’economia nazionale, Zurigo, nelle riunioni di direzione di una grande banca si parla il dialetto ticinese. Poi le alte sfere militari, in politica: abbiamo potuto registrare la riunione di staff di un dipartimento fatta interamente in dialetto. E potremmo aggiungere il campo medico, ecclesiastico… diverse situazioni che dimostrano la funzionalità del dialetto.

Senza, ha accennato, essere di chiusura.

Sta all’intelligenza del singolo parlante far sì che la lingua rispecchi la natura per la quale esiste: comunicare, entrare in contatto. Se l’uso di una lingua – nel nostro caso il dialetto – è di chiusura, effettivamente non ha più senso usarla ma il nostro servizio mostra che, se gestito con intelligenza, il dialetto è utile, apre nuove strade.

Elisabeth Alli, il bilinguismo italiano-dialetto è un vantaggio?

Sì, nella seconda parte del servizio c’è una parte scientifica, sui vantaggi del bilinguismo in generale.
Ci sono interessanti studi sullo “smussamento” della seconda lingua. Quando alla lingua madre, quella degli affetti imparata a casa, se ne aggiunge un’altra, spesso appresa sui banchi di scuola, quest’ultima è più razionale. Per un manager pensare in dialetto, lasciando andare le proprie emozioni, e poi passare a un’altra lingua più razionale, aiuta. Ho avuto la fortuna di sentire uno dei maggiori linguisti che lavora a Harvard, un siciliano: il professor Alfonso Caramazza. Lui adesso è a Boston, le occasioni per parlare dialetto sono meno frequenti, in quanto emigrante, ma mi ha detto di provare un grande piacere a sentire e parlare il suo dialetto. Infatti la propria lingua madre ti permette di esprimere una gamma di emozioni più ampie, mentre nella seconda lingua queste sono più temperate, più distanti. Un monolingue, invece, ha una lingua sola per esprimere le emozioni, per pensare e per essere razionale.

Franco Lurà, si è detto che il dialetto è una lingua. Ma è una lingua viva? Sempre meno parlanti, necessità di prendere parole dall’italiano…

Rosanna Zeli, che ha lavorato per lunghi anni al Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana diventandone anche direttrice, ha coniato una bella espressione: “Le lingue vivono morendo”. Una lingua si adatta ai contesti che deve esprimere: è giusto che il dialetto si modifichi, accetti neologismi, cambi strutture… come ogni lingua. Ci sono realtà che una volta non esistevano, altre che non esistono più: l’importante è che si continui a parlarlo. Da questo punto di vista, credo che i puristi facciano danni…

Elisabeth Alli, un aspetto curioso è che il dialetto è maschio: son poche le donne che lo parlano.

Il ritratto tipico del dialettofono è una persona di sesso maschile, anziana e che abita in valle. È forse un po’ stereotipato, come ritratto, ma effettivamente le donne che parlano dialetto sono non una rarità ma comunque una minoranza. Nel servizio incontriamo alcune donne che capiscono il dialetto, perché sono cresciute in una cerchia familiare dove si parlava dialetto, ma non lo parlano perché con loro si parlava in italiano perché il dialetto era considerata lingua grezza, della terra, sporca, non compatibile con l’eleganza che ci si aspettava dalle ragazze.

Franco Lurà, timori ancora presenti?

No, questa immagine negativa del dialetto è svanita. Il pericolo è minore, ma la realtà sociale è molto cambiata, il che rende ad esempio difficile recuperare il dialetto con il gruppo dei pari, con i coetanei. Un tempo era normale: ho dei conoscenti cresciuti in famiglie italofone che poi, frequentando gruppi e associazioni, sono diventati dialettofoni a pieno titolo.

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