la recensione

Zola e gli intellettuali, l'ultimo Polanski

È in sala ‘L’ufficiale e la spia’. L’affaire Dreyfus, qui raccontato magistralmente, sancisce la nascita dell’intellettuale moderno

'L'ufficiale e la spia' di Roman Polanski (© 01 Distribution)
30 novembre 2019
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Da qualche giorno è nelle nostre sale l’ottimo film di Roman Polanski, ‘L’ufficiale e la spia’, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris, presentato al festival di Venezia e vincitore del Leone d’argento. Il film racconta l’affaire Dreyfus, episodio storicamente rilevante perché sintetizza, oltre che il “mood” di un’epoca, anche molti aspetti a venire della società e della cultura della prima metà del ventesimo secolo. Ridotto all’osso, l’affaire si presenta come una storia di spionaggio: un ufficiale ebreo dell’esercito francese, Alfred Dreyfus, nel 1894 viene coinvolto in un’inchiesta e condannato ingiustamente con l’accusa di alto tradimento per aver rivelato informazioni riservate all’Impero tedesco. In realtà, però, l’accusa che pesa su Dreyfus è frutto di una montatura in cui si trovano coinvolti rappresentanti dell’esercito e del governo francese. Questi individuano nel capitano Dreyfus un facile capro espiatorio per coprire problemi di corruzione e debolezza interna: in tempi di crisi e di incertezze, amplificate dalla sconfitta che la Francia subisce nella guerra francoprussiana nel 1871, ufficiali ed esponenti politici sfruttano la carta dell’antisemitismo montante per ridare legittimità all’esercito francese.

Polanski sceglie di raccontare la storia dal punto di vista di Georges Picquart, ufficiale dell’esercito che, un po’ inaspettatamente e in concomitanza con la condanna dell’ufficiale ebreo, si ritrova a capo della sezione dei servizi segreti dell’esercito francese. Presto intuisce che Dreyfus è innocente e, contro l’ottusità dei suoi superiori, decide di intraprendere il cammino lungo e tortuoso per far conoscere la verità. Sulla sua strada (siamo circa a metà film) incrocia il romanziere Émile Zola, deciso quanto lui a smascherare l’imbroglio. Come? Zola scrive una lettera aperta (dall’eloquente titolo “J’accuse”) al presidente della repubblica Félix Faure affidandola al quotidiano ‘L’aurore’ che la pubblica il 13 gennaio 1898. Nello scritto, Zola accusa puntualmente alcuni alti funzionari del governo e dell’esercito di mantenere in vita una società ingiusta e corrotta. ‘L’aurore’, quel giorno, si vendette a centinaia di migliaia di copie, coalizzando la Francia intorno a due fazioni opposte, pro o contro Zola.

Il “J’accuse” di Zola fu anche l’episodio, e assieme il manifesto, che inaugurò la storia dell’intellettuale moderno. Nelle settimane successive alla sua pubblicazione, cominciò infatti a circolare sulla stampa francese l’attributo di ‘intellettuali’ per indicare quegli accademici, artisti, e uomini di lettere che abbracciavano la causa di Dreyfus. Complice anche l’uso diffamatorio che ne fece il popolare scrittore Maurice Barrès (che, a differenza di Zola, non sposava la causa di Dreyfus), l’aggettivo intellettuale, usato al plurale per designare un collettivo, diventò l’etichetta di una nuova avanguardia estetica e culturale.

In una Francia dove il passaggio dalla società agricola a un modello più industrializzato aveva lasciato un vuoto identitario e una mancanza di solidarietà collettiva, gli intellettuali cristallizzano da subito i segni opposti di questi tempi incerti, diventando tanto bersaglio di critiche e denigrazioni, quanto motivo di ammirazione e di adesione alla verità. L’interesse mediatico calamitato dall’affaire Dreyfus getta quindi le basi di una prima cornice di senso, di uno spazio simbolico e culturale all’interno del quale si muovono, agiscono e pensano i primi intellettuali moderni. Come affermano gli storici Pascal Ory e Jean-François Sirinelli, da subito appare chiaro che l’intellettuale si definisce non tanto (o non solo) per quello che è, ma piuttosto per quello che fa. L’intellettuale non è un semplice uomo di lettere, un artista, o un pensatore: è un comunicatore, qualcuno che articola una visione, che prende posizione, che argomenta pubblicamente in nome della verità, della giustizia, e della ragione.

Nel solco dei dibattiti che seguono l’affaire Dreyfus, la categoria di intellettuale comincerà a vivere di vita propria, differenziandosi e affinandosi ulteriormente: dando luogo, negli anni, tanto a un immaginario sociale e culturale quanto a dei tentativi più o meno riusciti di definirne identità, ruoli e compiti. Come dirà più tardi Edward Said, l’intellettuale si profila spesso come un personaggio scomodo, anche imbarazzante. Secondo Jean-Paul Sartre, poi, l’intellettuale è “quelqu’un qui se mêle de ce qui ne le regarde pas”: ovvero, qualcuno che si immischia di ciò che non lo riguarda. A suo agio tanto nei caffè parigini quanto seduto a una scrivania, abile tanto nella scrittura di romanzi quanto nella stesura di testi filosofici o politici, Sartre riunì e esemplificò un tipo di intellettuale che fece scuola e che marcò l’immaginario del ventesimo secolo. Secondo una definizione sociologica che, negli anni, tende a stabilizzarsi, l’intellettuale è colui o colei che a partire da una posizione riconosciuta e riconducibile a un ambito specifico (accademico, artistico, scientifico etc.) affronta temi di interesse generale: uscendo, di fatto, dalla propria nicchia di specialista per parlare a nome di un interesse generale e collettivo e per, come affermava Said, dire la verità in faccia al potere.

In questo senso il film di Polanski è senza dubbio molto attuale. Forse però allora era più facile smascherare le manipolazioni e le distorsioni del reale. Nell’epoca del virtuale, dei social media e della pervasività delle fake news, distinguere il vero dal falso, la verità dalle menzogne, diventa sempre più arduo. Di fronte a un reale che ha smarrito le sue coordinate certe, forse gli intellettuali rischiano di passare in secondo piano. Anche se qualche J’accuse, per fortuna, fra le nuove generazioni comincia a farsi sentire.

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