l'intervista

Cochi Ponzoni: io, Milano e i quattro di 'Quartet'

La pièce teatrale, già sul grande schermo, approda al Sociale stasera e domani. Occasione per ricordare anche un duo che ha rivoltato la comicità come un calzino

Ponzoni, Blanc, Pambieri, Quattrini
28 novembre 2019
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Devono portare in scena ‘Bella figlia dell’amore’ dal Rigoletto di Verdi, cavallo di battaglia al quale sono legati i loro ricordi di ex stelle della lirica oggi in soggiorno obbligato in casa anziani per artisti che furono. Regna una sostanziale tranquillità tra compagni d’opera; tra il contralto Cecy (Paola Quattrini), il tenore Rudy (in origine Giuseppe Pambieri, a Bellinzona lo sostituisce il regista, causa indisposizione) e il baritono Titta (Cochi Ponzoni); fino all’arrivo del soprano Giulia (Erica Blanc). Questo è lo stato delle cose in ‘Quartet’ di Ronald Harwood, che al cinema ha la regia di Dustin Hoffman e stasera e domani al Sociale, 20.45, quella di Patrick Rossi Gastaldi. È Cochi a parlarcene. E noi ci autoinvitiamo anche nei suoi ricordi della Milano ‘da ridere’, che cambiò la comicità in Italia...

Ponzoni, ci parla del suo baritono? Titta?

È il più vitale dei quattro. Fa di Cecy la destinataria delle sue fantasie sessuali, innocue, anche se un po’ pesanti. Titta fa parte di una rappresentazione dei tic della vecchiaia, in chiave umoristica e allo stesso tempo no, perché ‘Quartet’ non è una rivisitazione patetica degli anziani, anzi. Tutti loro, nonostante l’età, cercano di godersi gli ultimi anni di vita con situazioni che li possano tenere impegnati e possibilmente allegri.

Mi permetto un passo indietro. Esce oggi ‘Cochi e Renato - La biografia intelligente,’ libro sulla svolta della comicità in una Milano in cui arte e spettacolo erano un tutt’uno...

Sì, ancora da ragazzini, ancor prima di fare questo mestiere, frequentavamo gli artisti che giravano a Milano alla fine degli anni 50. I nostri amici erano Piero Manzoni, Lucio Fontana, Dino Buzzati. Frequentavamo insieme le osterie che al tempo, in città, erano il ricettacolo di tutti gli intellettuali dell’epoca.

Ricorda l’esordio?

È stato al Cab 64, il primo cabaret insieme a Renato, e a Tinin e Velia Mantegazza, Bruno Lauzi, Lino Toffolo, Felice Andreasi. Dopo di che ci trasferimmo al Derby con Jannacci.

Ci fu un momento in cui capiste che il successo stava per arrivare?

Senz’altro al Derby, con il locale esaurito dal lunedì alla domenica. Mandavamo via ogni volta fino a duecento persone. È stato lì che abbiamo capito che il gruppo andava alla grande. Anche se il successo, quello discografico, era già arrivato per Jannacci, con ‘El portava i scarp del tennis’, e per Lauzi con ‘Ritornerai’.

C’era anche il ‘suo’ Gianni Brera, nato giusto cento anni fa...

Brera l’ho portato in scena recitando i suoi testi giornalistici, le sue cronache sportive. Lo conoscevo bene, era molto amico di Beppe Viola, compagno di giochi di Jannacci. Sì, c’era anche Brera in quella Milano, c’era di tutto. A parte i giornalisti sportivi, gli intellettuali come Dario Fo, c’era il mondo della televisione nascente, ci frequentavamo tutti, c’era una comunicazione molto viva.

All’epoca, la vostra ironia fu considerata pericolosa. Il Ministero dell’istruzione voleva che la Rai vi cacciasse...

Sì, ma quando se ne accorsero era già troppo tardi (ride, ndr). Era l’epoca delle baronie universitarie, uno scandalo. La politica scoprì dalla tv che Renato, il maestro povero, diceva: “Compito a casa: prendete una banconota da 50mila lire, fatene una copia e portate al vostro maestro l’originale”, e io, l’alunno ricco, rispondevo: “Ma come?”; e lui: “Fatevi aiutare dai vostri genitori”. Capirono che il maestro chiedeva i soldi all’alunno. Ma lo capirono quando tutta l’Italia già aveva memorizzato “bravo, sette più”.

Ha dichiarato che la censura, però, fece di peggio con ‘Nebbia in Val Padana,’ il vostro ritorno nel Duemila...

In effetti la Rai, invece di lasciarci liberi, fissò una serie di paletti. Nella prima puntata, io e Renato ci rivedevamo dopo tanti anni; lui aveva una figlia che non si sapeva bene se fosse mia o sua, perché la moglie aveva avuto una storia con entrambi. Per esigenze di storia, questa figlia sarebbe dovuta essere una ragazza obesa. E invece ci imposero una ragazzina carina e cicciottella, ma molto diversa dalla tipologia di attrice che avevamo chiesto. E ci tagliarono anche la scena in cui Renato avrebbe dovuto trovare un neonato nel bagagliaio, una soluzione, anche qui, finalizzata a uno specifico sviluppo storico. Praticamente, siamo stati costretti a scrivere giornalmente, o addirittura poco prima di girare.

C’è qualcuno che secondo lei ha raccolto in pieno la lezione di spettacolo lasciata da Cochi e Renato?

Il nostro linguaggio è sempre stato un po’ particolare, ma ci sono artisti con una loro caratteristica. Aldo, Giovanni e Giacomo, Paolo Rossi, Elio e le Storie Tese. Elio mi dice sempre che si è molto ispirato a noi due quando ha cominciato. Qualche seme, qua e là, l’abbiamo buttato.

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