Spettacoli

'Woodstock? Il primo evento social, ma senza i social'

Intervista a Sergio Mancinelli, giornalista e conduttore radiofonico di Radio Capital: 'Fu musica e aggregazione, l’una che amplificava l’altra, e viceversa'

Sergio Mancinelli (Pagina Facebook)
13 agosto 2019
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Giornalista e conduttore radiofonico, a Sergio Mancinelli si deve da anni un fondamentale lavoro di recupero e mantenimento storico della musica. Relativamente al soul, il prestigioso Porretta Soul Festival gli ha conferito quest’anno lo ‘Sweet Soul Music Award 2019’ per il contributo alla promozione e alla valorizzazione del soul e del rhythm&blues in Italia. Tutto il resto del suo valorizzare, rock incluso, è stato e sta in programmi di culto di Radio Capital come ‘Area Protetta’, ‘Sentieri Notturni’, fino all’odierno ‘Dodici79 – Il mondo in vinile’, la musica pubblicata entro il 31 dicembre del 1979...

Sergio Mancinelli si ricorda dov’era il 15 agosto del 1969?

Stavo andando in bici al mare, a Sabaudia. A quel tempo le vacanze duravano molto di più. La mia famiglia prendeva una casetta in affitto sul mare e io facevo la vita di tutti i ragazzini di allora, spendendo 20 lire della mia paghetta per il ghiacciolo e le rimanenti per il jukebox...

Domanda sotto forma di titolo di libro: ‘Woodstock spiegato a mio figlio.’..

Probabilmente, per incuriosirlo, gli direi che è stato il primo evento social. In realtà è una parola oggi strausata, perché come evento non aveva, in quel momento, la stessa valenza. Si trattò comunque di un momento epocale, di un’adunata spontanea di oltre 500mila persone richiamate non certo via Twitter o Facebook ma, soltanto, dalla voglia di ascoltare musica e stare insieme.

Penso al libro di David Hepworth, che colloca l’anno d’oro del rock nel 1971, e che forse il meglio, musicalmente parlando, dovesse ancora venire…

Il meglio del rock ha avuto in quel 1969 uno dei suoi apici. Uscirono nell’arco di dodici mesi dischi irripetibili: il debutto dei Led Zeppelin, il debutto di Santana, dei King Crimson, di Crosby, Stills & Nash. Fu l’anno di ‘Ummagumma’ dei Pink Floyd, di ‘Space oddity’ di Bowie, ‘Abbey Road’ dei Beatles, ‘Green River’ dei Creedence, ‘Volunteers’ dei Jefferson Airplane e, giusto per concludere, ‘Hot rats’ di Frank Zappa e ‘Let it bleed’ degli Stones. Certo, anche nel 1970 e nel 1971 non si scherzò affatto.

È un azzardo dire che il film ha lasciato un solco più profondo di quello del disco?

Il film sembrò avere una marcia in più. Però il disco, o meglio i dischi, hanno avuto dalla loro la possibilità di offrire ascolti ripetuti.

I tuoi momenti preferiti?

Tanti... Creedence, Santana, Janis Joplin, Joe Cocker, Canned Heat, Paul Butterfield, Ten Years After e... Jimi Hendrix.

‘Woodstochiano’ è accezione che rimanda a cose un po’ sui generis, un sinonimo di ‘impalpabilità’...

E invece si facevano le cose sul serio. Penso a Bill Graham, l’impresario del ‘Fillmore’ (storica sede musicale della psichedelia e della controcultura, ndr). Agli organizzatori disse: “Io vi mando Jefferson Airplane e Grateful Dead, però voi mi prendete anche Santana”. Credo che Graham sia stato l’inventore del “prendi due, il terzo è in omaggio”. Il neologismo è arrivato dopo. Quel che conta è che per la prima volta questa moltitudine rimase quattro giorni ad ascoltare musica, dimostrando che la generazione giovane aveva il potere di determinare un gusto musicale. Lo dimostrò a quell’industria che aveva i suoi canoni, prima di allora stabiliti da editori, direttori artistici, studi di registrazione. A Woodstock saltarono tutti i paletti...

Anche quelli di un concerto con esibizioni alle quattro della mattina, cose da rave party...

Sì, tutto lo spettacolo fu informe, non governato da regole di scaletta, un magma molto libero che ribolliva di tanta improvvisazione. Oggi, per una manifestazione che dovesse tenersi in quei modi, e con quei tempi scenici, artisti e organizzatori si prenderebbero milioni di fischi. All’epoca non era importante.

Serve sempre ricordare Woodstock? E se sì, perché?

Credo per la spontaneità di quanto accaduto, per il rivoluzionario senso di libertà e per la creatività così libera da condizionamenti che tutti gli artisti ebbero ed espressero. E per il momento unico di aggregazione, il desiderio di libertà, di sesso, fumo, trasgressione. Tutto era materia incandescente e informe, era ferro fuso che usciva dai grandi paioli degli altiforni e che avrebbe preso forme più definite negli anni a venire. Woodstock fu musica e aggregazione, l’una che amplificava l’altra, e viceversa.

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