Spettacoli

Ready Player One, capolavoro virtuale di Steven Spielberg

In un’orgia di riferimenti alla cultura pop degli Ottanta e Novanta, scopriamo Oasis, il mondo virtuale nel quale, nel 2045, l’umanità trova riparo dalle miserie della realtà

(Warner Bros)
29 marzo 2018
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Se la realtà fa schifo, e ti ritrovi a vivere in quella che fondamentalmente è una futuristica baraccopoli alla periferia di Columbus, Ohio, niente di meglio di un mondo virtuale nel quale poter essere, e fare, quello che si vuole. Il che poi, curiosamente, si riduce a un’epitome della cultura pop – e nerd – dagli anni Ottanta in avanti: King Kong, Gundam, Chucky la bambola assassina, Ritorno al Futuro, Freddy Krueger, Billy Idol, Lara Croft, Breakfast Club, Batman, Street Fighter, Star Trek, Shining (e altri riferimenti ancora, compresi quelli inevitabilmente sfuggiti al recensore), ovvero le passioni di James Halliday, l’eccentrico creatore di Oasis, questa gigantesca realtà virtuale alternativa nella quale tutta l’umanità vuole restare. “A parte per mangiare, dormire e andare al gabinetto” spiegherà il protagonista, il giovane Wade Watts o, per chiamarlo con la sua identità virtuale, Parzival, il primo a riuscire a decifrare l’indizio lasciato, al momento della sua morte, da Halliday per scovare le tre chiavi ed ereditare la sua immensa fortuna e il controllo di Oasis. Una caccia al tesoro, o meglio all’Easter egg per dirla col gergo informatico, nella quale Parzival, e i suoi amici e alleati, dovranno vedersela con la malvagia IOI (che sta per Innovative Online Industries) diretta dall’altrettanto malvagio Nolan Sorrento.

La guerra dei mondi

Si gioca tutto sulla contrapposizione tra mondi, questo ‘Ready Player One’ di Steven Spielberg, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Ernest Cline (tradotto in italiano da Isbn e adesso ripubblicato da DeA Planeta Libri) che ha anche collaborato alla sceneggiatura, riuscendo abbastanza bene a comprimere la narrazione nei 140 minuti del film (due ore e venti, sì, ma con la regia di Spielberg e il montaggio di Michael Kahn passano in un lampo).

Da una parte il mondo virtuale, con i suoi colori saturi, i suoi ambienti di pura immaginazione, i suoi avatar; dall’altra il mondo reale che – è la scontata morale del film – sarà l’unico che conta davvero, ma ci viene presentato come buio, opaco. Ma non è l’unico contrasto che troviamo nel film. C’è infatti anche la contrapposizione tra un futuro distopico, con le città devastate da inquinamento e sovrappopolazione e in cui una multinazionale cattiva (ovviamente la IOI) può mettere ai lavori forzati le persone indebitate, e un idealizzato e nostalgico passato composto di quelle icone degli anni Ottanta, Novanta e Duemila di cui si è già parlato – e che avranno costretto la produzione a fare i tripli salti mortali per gestire i diritti d’autore.

Mondo magico abitato da zombi

Soprattuto, c’è il contrasto tra un universo narrativo estremamente complesso e sfaccettato – e visivamente incredibile, realizzato dallo scenografo Adam Stockhausen con la Industrial Light & Magic di George Lucas – e una storia estremamente lineare e fiabesca. Il che va benissimo ed è anzi uno dei punti di forza del film.

Quello che purtroppo non convince sono i personaggi, perché va bene essere in una fiaba con i buoni che fanno i buoni dall’inizio alla fine e i cattivi che fanno i cattivi dall’inizio alla fine, ma un minimo di spessore e di profondità psicologica potrebbero anche averli. Il che si ripercuote purtroppo anche sugli attori, perché se da una parte abbiamo interpretazioni notevoli che ben si adattano allo stile del film – Mark Rylance nei panni dello stralunato James Halliday, Simon Pegg (il socio di Halliday, Ogden Morrow) e Ben Mendelsohn, il cattivo Alan Sorrento –, dall’altra abbiamo i giovani eroi che sembrano prendersi troppo sul serio, soprattutto Tye Sheridan (Wade Watts/Parzival) e Olivia Cooke (Samantha Cook/Art3mis).

“Un’avventura troppo grande per il mondo reale” è lo slogan del film. L’impressione, a essere sinceri, è tuttavia di una avventura troppo semplice perché potesse funzionare solo nel mondo reale. Ma, tutto sommato, poco importa: nel finale abbiamo uno scontro tra Mechagodzilla e il Gigante di ferro.

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