Società

Paolo Giordano e lo sguardo lungo della scienza

‘La scienza è umana in tutte le sue diramazioni’ ci spiega lo scrittore e fisico, ospite al Lac di Lugano per parlare anche di Covid-19

Paolo Giordano (foto Daniel Mordzinski)
17 ottobre 2020
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Parlare di scienza e società è difficile, oggi che il primo pensiero non è più all’incomunicabilità tra le cosiddette ‘‘due culture”, quella tecnico-scientifica e quella umanistica, ma alla pandemia. «L'attualità è più veloce di noi, purtroppo» ci spiega Paolo Giordano, fisico e scrittore – Premio Strega nel 2008 con ‘La solitudine dei numeri primi’ – ospite del primo appuntamento del ciclo ‘Arti liberali’ organizzato dal Lac per riflettere su tutte le forme della creatività umana. Con lui, sabato 17 ototbre alle 20.30 nella Sala Teatro del Lac e in streaming sul sito www.luganolac.ch, Fabiola Gianotti, direttrice del Cern e pianista diplomata al Conservatorio di Milano.

Un incontro pensato per una riflessione generale, ma che l'attualità con i contagi in aumento chiaramente porterà a ragionare sul coronavirus al quale Giordano ha dedicato un breve saggio, ‘Nel contagio’ (Einaudi 2020). Un approccio «importante: è una cosa che avremmo dovuto fare fin dall'inizio, senza farci inghiottire dall'emergenza a ogni passo ma, accanto all'emergenza, avere uno sguardo più a medio e lungo termine» spiega sempre Giordano.

La scienza è cultura, eppure i due termini sono spesso visti come incompatibili.

L'incompatibilità è tutta esteriore, anche se è un modo di pensare comune. Questa incompatibilità arriva da lontano e in Italia è iscritta nel modo in cui strutturiamo l'educazione e per me la radice di questa separazione per molte persone arriva da lì, da come dividiamo le materie, dalla scelta che, molto presto nel nostro arco formativo, siamo chiamati a fare, se appartenete all'una o all'altra forma di sapere. Un sistema che sono convinto bisognerebbe avere il coraggio di ripensare dalle fondamenta e spero che questa crisi sia un'occasione per farlo. Se sapessimo inaugurare qualche pensiero un po' più lungo , perché questa crisi ha scoperchiato quanto il sapere scientifico sia necessario per stare nel vivere dell'oggi. Non possiamo più permetterci un atteggiamento un po' snobistico verso certi tipi di sapere che forse andava bene cinquant'anni fa.

Nel suo libro racconta della diffidenza tra istituzioni, cittadini ed esperti.

È un atteggiamento molto infantile quello che cittadini e istituzioni hanno mostrato verso il sapere scientifico, verso il sapere di cosiddetti esperti. Nel senso che l'aspettativa era sbagliata, l'idea che la scienza sia qualcosa di assolutamente giusto, di assolutamente vero, di assolutamente affidabile.

La scienza è umana in tutte le sue diramazioni, è fortemente politicizzata, è piena di vanità – possiamo dircelo, lo abbiamo visto in questi mesi in moltissimi soggetti –, è piena di approssimazioni. La scienza e gli scienziati possono anche essere molto ottusi. Tutto questo fa parte del fatto che è una disciplina umana, esattamente come tutte le altre soggetta a fallacie ed errori. invece in qualche modo, per qualche motivo ci aspettiamo che sia qualcosa di incorruttibile e assoluto. Ma questo secondo me è un atteggiamento un po' infantile

Un atteggiamento solo dei cittadini?

No, lo troviamo nelle stesse istituzioni: a ogni passo si sono un po' nascoste dietro le decisioni, le indicazioni dei comitato di esperti. È preoccupante e anche un po' deludente perché gli scienziati possono dare delle indicazioni, peraltro specifiche all'ambito di cui si occupano. Qua invece facevamo domande di epidemiologia a dei pneumologi: mi rendo conto che è un po' antipatico dirlo, ma fare le domande giuste agli esperti giusti fa parte anche questo del saper prendere la scienza per quello che è. Dopodiché la politica è quella che deve armonizzare, decidere e assumersi le responsabilità.

Tutto questo per me non ha funzionato bene e di nuovo non sta funzionando bene, purtroppo.

E in Europa l’unica soluzione, di nuovo, sembra essere il lockdown. 

Su questo bisogna essere un po' chiari. Innanzitutto non è che esiste “il” lockdown, quello assoluto, blindato, immobile, paralizzante che abbiamo vissuto a marzo aprile, oppure la libertà. Di nuovo è un atteggiamento binario che non funziona: esistono vari gradi di misure. È chiaro che le misure sono comunque nella direzione di limitare i contatti umani, perché quella è l'unico mezzo a nostra disposizione: limitare i contatti umani. Questo lo si può fare in modo mirato, intelligente, organico e commensurato. Oppure lo si può fare un po' come è stato fatto, cioè o troppo poco o troppo.

In realtà in questo momento dovremmo essere in una fase molto più matura della gestione, in cui le situazioni vengono prese a livello territoriale. Però parliamoci chiaro il problema di adesso è la carenza assoluta di misure nei mesi scorsi: non c'è nulla di imprevedibile in quello che sta succedendo stavolta, nulla. Non potevamo permetterci quello che ci siamo permessi. e questo almeno dovrebbe essere un dato che si comincia ad accettare. Dobbiamo passare al lockdown non perché non esistono altri modi, è perché non abbiamo usato i modi adeguati e adesso purtroppo è tardi. Anche se fatichiamo a rendercene conto, fatichiamo a capire la temporalità di questa pandemia.

Chiusura inevitabile, quindi?

Dobbiamo rinunciare a tutto quello che non riteniamo strettamente necessario, come ad esempio per me la scuola fatta nel modo più attento possibile. Capisco che si tratta di una parte essenziale delle nostre vite, però ricordiamoci che questo non è per sempre, non è una rinuncia eterna ma temporanea. In questo momento il nostro orizzonte dovrebbe essere cercare di passare l'inverno senza finire necessariamente di nuovo nella situazione vera paralisi. Perché questa volta sarebbe ancora più faticoso per tutti.

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