Società

Berlino riscopre Visconti

Berlinale, in sala anche la bellezza di 'Ossessione', nella versione integrale

Homegreen Films

Giornata strana questa alla Berlinale, non solo per una pioggia che si alterna velocemente al sole, come se il vento volesse giocare con gli ombrelli, ma per il grande successo ottenuto dalla versione integrale, 140’, di ‘Ossessione’ di Luchino Visconti, un film del 1943 che mostra come il grande cinema, così come la grande letteratura, non muore, anzi, meriti ancora applausi, perché sa emozionare raccontando di un’umanità che nonostante i progressi tecnologici resta sempre figlia dei primi uomini che mossero i loro passi su questo pianeta, amando, ridendo, piangendo, sempre consapevoli che il morire è figlio del nascere. Non a caso a sceneggiare il film insieme a Visconti c’erano,  con altri, l’intellettuale Alberto Moravia, e tre registi che diverranno importanti: Giuseppe de Santis, Antonio Pietrangeli e Gianni Puccini. Che film!

Fuggano pure

Ha sorpreso non poco l’unico film in Concorso oggi : ‘Rizi’ (Days), del talentuoso e premiatissimo Tsai Ming-Liang, è stato anche Leone d’oro a Venezia nel 1994, un film che sorprende e costringe a scelte. Molti sono fuggiti, nella prima delle oltre due ore di proiezione per la stampa. Il regista di origine malese, ma che batte la bandiera di Taiwan, infatti, fa un film evitando la finzione dei dialoghi da tradurre; i protagonisti si dicono pochissime cose che le immagini spiegano benissimo, non ci sono musiche, ma il sonoro della vita quotidiana in una metropoli; anzi, c’è anche una musica, fondamentale, quella di un organetto tascabile che intona la colonna sonora di Chaplin per ‘Luci della città’, ed è chiaro l’invito del regista a vedere il film con gli occhi di chi ama il cinema e non le parole che raccontano il cinema.

Ming-Liang sceglie un potente uso della camera ferma, con l’azione che nasce e costruisce all’interno, però il film non diventa mai un vero kammerspiel, ma con questo stile gioca. Due sono i personaggi che ruotano fino a toccarsi, in una vicenda colma di rispetto umano. Kang (Lee Kang-Sheng, attore caro al regista) vive da solo in una grande casa, Non (Anong Houngheuangsy) vive in un piccolo appartamento a Bangkok dove prepara metodicamente piatti tradizionali del suo villaggio natale. I due s’incontrano una notte in una stanza d’albergo in cui Kang paga Non per uno scambio d’amore. Ma subito i due uomini escono e vanno insieme a mangiare, provano a essere ancora senza solitudine. Kang regala a Non l’organetto giocattolo con quella musica che dice la dolce impossibilità di amare. Gran film, che regala la pace e la gioia di vedere e non di essere aggrediti da suoni e immagini, non è poco. 

Guinea olandese, 1961

Frequentare un Festival non è come frequentare una fiera. Il mercato dei Festival funziona così anche qui a Berlino, dove ci sono stati molti affari, ed è un bel sogno, sottolineato dai dati dello scorso anno che vedono in aumento sensibile il pubblico nelle sale dopo anni che hanno visto l’allontanamento degli spettatori. Ma il Festival non è il mercato, è un’esposizione in cui si possono fare delle buone considerazioni. In poche ore, infatti, abbiamo visto oltre a ‘Riza’ un film del Forum:  ‘Expedition Content’ di Ernst Karel e Veronika Kusumaryati, un film senza immagini, con solo le parole che vengono da nastri registrati nel 1961 nella Guinea olandese (oggi West Papua) da Michael Rockefeller della Standard Oil Rockefellers, trentasette ore di suono riguardanti la popolazione Hubula. Una testimonianza del colonialismo, privata della forza dell’immagine, resta purtroppo una trasmissione radio di bassa qualità.

Meditazione sonora

 

In altri due film di buon livello è importante l’impatto immagine-sonoro: si tratta di ‘Al-Houbut’ (The Landing) di Akram Zaatari e, soprattutto, ‘Purple Sea’ di Amel Alzakoute Khaled Abdulwahed. Il primo è un esemplare documentario, una meditazione sonora di fronte alle rovine dei tempi moderni. Il film ci porta a Shaabiyat al Ghurayfah, un progetto di edilizia popolare a Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti, costruito negli anni Ottanta per fornire ai discendenti dei beduini Ketbi le loro prime case di cemento, abitazioni dal design moderno ora completamente abbandonate per un ritorno alle tende. Restano cavi, condotte fognarie, tubi, pale, utensili da cucina, aeratori elettrici e servono tutti per trasformarsi in strumenti sonori: anche un atterraggio per elicotteri sul posto diventa suono che narra, e in un deserto vincente gli uomini rispondono al vento con la voce del loro futuro abbandonato. Poesia.

Un senso di morte

E che dire di ‘Purple Sea’ se non che è stato girato tra Turchia e Grecia durante un naufragio in cui sono morte decine di anime e corpi migranti. Non immagini da fuori, da sopra, da soccorritori: no, da dentro l’acqua, tra i corpi non ancora tratti in salvo, acqua e corpi che fluttuano tra il morire e l’essere salvati; non c’è spazio, il visivo è tremendo, ti senti anche tu, ben protetto in sala, la paura addosso, invincibile, di chi accompagna la morte. Non c’è pace tra queste immagini, né le parole, diario di una ragazza che filma e che raccontano di qualcuno che si ama, del sogno di un passaporto da aspettare minimo due anni in un lager recintato, e i ricordi della Siria, e l’aver pensato che dopo i bombardamenti in Iraq visti in televisione sarebbe stata la pace e scoprire che i razzi hanno un colore diverso tra la televisione e quelli che ti cadono addosso. Film inquietante, cinema vero che è capace di parlare e di farsi capire. Delude invece l’atteso ‘Charlatan’ di Agnieszka Holland, che trasforma il racconto della vita di Jan Mikolášek, un uomo che ha salvato milioni di persone, in un soft porno che amareggia.

 

 

 

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