Ticino7

È mio! Il diritto d'autore ai tempi di Google

Da Napster all'ultima direttiva europea, un percorso parecchio tortuoso fra dubbi e speranze

20 ottobre 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

C’è stato un tempo in cui le rockstar erano idoli d’oro: i Led Zeppelin raggiungevano le tappe dei loro tour a bordo di un jet privato; Freddie Mercury organizzava feste leggendarie che duravano diversi giorni di seguito, mentre Marilyn Manson ha affittato un intero castello – il goticissimo Castle Gurteen Le Poer – per sposare Dita Von Teese (fra gli intrattenimenti offerti agli ospiti, falconeria e tiro con l’arco). L’industria discografica era una delle più remunerative nell’ambito dello show business, e a trarne beneficio erano tanto gli artisti quanto, soprattutto, i produttori.

L’inimmaginabile

Si andò avanti così fino alla fine degli anni Novanta; poi, nel 1999, due ragazzini americani (Shawn Fanning e Sean Parker) che, come diversi loro coetanei in quel periodo, stavano scoprendo le immense potenzialità di un sistema chiamato «internet», crearono una piattaforma per l’interscambio di file musicali «fra pari» (peer-to-peer): la piattaforma si chiamava Napster e, nel giro di dodici mesi, avrebbe messo in ginocchio l’intero sistema, ponendo per sempre fine alle favolose dissipazioni del rock'n'roll.

Improvvisamente, ciò che da sempre era dato per scontato, ovvero che per avere l’ultimo disco del tuo gruppo preferito dovevi comprarlo, non era più vero. Napster consentiva la condivisione gratuita di tutta la musica di cui uno disponeva in formato mp3; moltiplicando questa disponibilità per ottanta milioni di utenti registrati – tanti ne contava la piattaforma nel momento di massima espansione – ne risultava la copertura pressoché completa di ogni frammento di musica che fosse stato pubblicato fino a quel momento, compresi i pezzi più rari come i dischi andati fuori catalogo o i bootleg dei concerti con registrazioni non autorizzate dal vivo.

Atto di difesa

Di fatto, Napster si spinse oltre diffondendo in rete nuovi singoli e addirittura nuovi album con diverse settimane di anticipo sulla data del rilascio ufficiale. Celebri in questo senso i casi di Metallica e Madonna, che convinsero infine le grandi casi discografiche a intentare un’azione legale contro la piattaforma, accusandola di furto di materiale inedito e infrazione del copyright. L’azione ebbe successo e, due anni dopo, Napster chiuse i battenti, ma a quel punto il file-sharing era diventato una pratica talmente diffusa che sarebbe stato necessario denunciare metà della popolazione mondiale sotto i venticinque anni per porvi rimedio. Era come cercare di fermare il mare con le mani.

«Napster ha modificato il modo in cui ascoltiamo musica, usiamo i nostri PC e concepiamo la proprietà. Ha reso concetti come il peer-to-peer, che una volta erano appannaggio degli smanettoni, accessibili alle masse. Ha creato un impiego effettivo per il traffico via internet. Potrebbe anche avere reso il furto culturalmente accettabile. È stato un simbolo della new economy e un bersaglio per l’ira delle vecchie corporazioni. Alla fine, non è riuscito ad adattarsi al nuovo mercato che aveva contribuito a creare» scriveva Michael Gowan, giornalista specializzato, quando tutto questo era appena successo («Requiem for Napster», PC World, 18.5.2002).

Salvaguardia del lavoro

Se Napster è morto (salvo poi resuscitare in altre forme), migliaia di altri siti offrono agli utenti la possibilità di condividere, scambiare e scaricare non solo musica ma anche articoli, film, software ed ebook, ciò che negli ultimi vent’anni ha drasticamente ridotto i proventi derivanti dall’attività intellettuale in generale, e da quella creativa in particolare. E per quanto possa apparire ideale un sistema nel quale i prodotti dell’ingegno siano condivisi liberamente, la realtà è che allo stato attuale le condizioni per mettere in pratica questo principio non sussistono ancora.

Il lavoro intellettuale, anche nei casi più eccelsi, resta un lavoro: un’attività che per definizione è riconosciuta attraverso la corresponsione di un adeguato compenso economico. Contravvenendo a questa semplice equazione, le case editrici chiudono, le testate giornalistiche dichiarano forfait, musica e letteratura si riducono a hobby del fine settimana, con prevedibili ricadute sulla qualità della produzione, e diventa sempre più difficile distinguere fra fonti informative affidabili e propalatori occasionali o professionali di fake news. Sull’altro lato della barricata, i sostenitori del diritto alla libera condivisione rispondono con argomentazioni non facilmente liquidabili.

Per esempio, la creazione su base volontaria di vaste banchedati senza fini commerciali quali Wikipedia, Progetto Gutenberg o Internet Archive, diventate strumento di consultazione quotidiana per milioni di utenti, non sarebbe sostenibile se l’accesso alle fonti di cui sono costituite fosse a pagamento. Lo stesso vale per molte banchedati settoriali, scientifiche, che rendono possibile il lavoro di ricerca, tipicamente svolto attraverso collaborazioni internazionali.

Promesse mancate

L’industria discografica, rea di essere stata troppo avida in passato – si calcola che il solo passaggio dal vinile al cd durante gli anni Ottanta-Novanta abbia aumentato i profitti del 20% netto –, potrebbe a sua volta trarre beneficio dalla condivisione di musica in anteprima, consentendo ai potenziali acquirenti di decidere con cognizione di causa se e cosa comprare, e quindi incentivando anziché penalizzando le vendite. Lo stesso varrebbe per libri e film. Tutto molto vero, così come appare legittima la pratica di condividere liberamente in rete il frutto della propria creatività, quando ciò corrisponda alla volontà degli autori. Dopo tutto, quando ventinove anni fa (era il 1989!) Tim Berners-Lee presentò al mondo il World Wide Web, affermò che «il Web sarebbe stato aperto a tutti, in tutto il mondo, libero ed esente da qualunque royalty, per sempre». Sfortunatamente, come lo stesso Berners-Lee ha denunciato di recente, quella che una volta era una coesistenza felice di innumerevoli siti e blog è ora uno spazio monopolizzato dai grandi aggregatori d’informazione, che peraltro detengono enormi quantità di dati sugli utenti. Considerata la deriva presa da internet negli ultimi anni, i primi e forse unici beneficiari degli originali principi ispiratori sono i giganti commerciali come Google, Facebook e Twitter.

Proposte istituzionali

Negli ultimi mesi, il Parlamento europeo ha lavorato per trovare una soluzione al dilemma: ha proposto una prima direttiva sul copyright a luglio – bocciata, anche a causa delle pressioni esercitate dalle multinazionali che, descrivendo il disegno di legge come un attentato alla libertà della rete, hanno inondato le caselle di posta degli europarlamentari con milioni di appelli – e una seconda a settembre – approvata respingendo gli emendamenti che tentavano di stemperare la portata degli articoli 11 e 13, ovvero quelli che hanno il potenziale d’impatto maggiore sui grandi aggregatori d’informazione.

L’articolo 11 prevede infatti che ad autori ed editori vengano corrisposti i diritti anche per l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni (la cosiddetta link-tax); l’articolo 13 impone invece che le piattaforme che «memorizzano e danno pubblico accesso a grandi quantità di opere o altro materiale» adottino misure adeguate a proteggerle attraverso «l’uso di tecnologie efficaci per il riconoscimento dei contenuti». Il testo di legge si riferisce qui al cosiddetto upload filter, un «filtro» che impedisce agli utenti di caricare materiale protetto da copyright. La misura è volta a responsabilizzare i provider che fino a ora hanno tratto enorme vantaggio da tali violazioni senza risponderne, poiché tecnicamente erano i singoli utenti a infrangere la legge. Di qui in avanti, invece, l’onere di tutela ricadrà sulle aziende, mentre per gli utenti non cambierà niente, così come resterà immutato l’utilizzo privato dei link e il loro uso non commerciale (per esempio, Wikipedia).

Punti di vista

A dispetto della campagna a loro difesa messa in atto dalle grandi dot-com, la direttiva europea sul diritto d’autore nel mercato digitale potrebbe contribuire a rendere la rete più equa promuovendo, da una parte, una condivisione autenticamente disinteressata e, dall’altra, un riequilibrio dei rapporti di forza fra gli attori in gioco. Tuttavia, il fatto che sia stata approvata significa soltanto che il Parlamento ha adottato una posizione comune sul testo: ora dovrà ottenere l’approvazione del Consiglio dei Ministri di concerto con la Commissione europea. Poi saranno i parlamenti nazionali a tradurla in legge, vedremo con quali risultati.

In verità, non tutti sono convinti che la direttiva porterà nuovi equilibri alla rete. La link-tax, per esempio, potrebbe spingere Google a chiudere Google News invece di pagare (lo ha già fatto in Spagna e in Germania). Ciò non intaccherebbe granché i suoi profitti, ma priverebbe molti editori – soprattutto quelli piccoli e indipendenti – di una potente vetrina per generare «traffico» sui loro siti. «In definitiva – spiega Innocenzo Genna sul Post – la riforma crea una serie di orpelli (fissazione tariffe, modelli e procedure di riscossione della link-tax, incertezze giuridiche), ma il risultato economico sarà verosimilmente irrilevante». Nel frattempo «la crisi degli editori non si risolverà». Chi vivrà, vedrà.

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Tutela degli autori in svizzera

Nella Confederazione il copyright è regolamentato dalla Legge federale sul diritto d’autore e sui diritti di protezione affini e dall’Ordinanza sul diritto d’autore e sui diritti di protezione affini. Lo scorso novembre il Consiglio federale ha approvato un progetto di legge che prevede la parziale revisione della normativa, tenendo conto dei cambiamenti comportati da internet. Tuttavia, mentre l’organizzazione dei consumatori si è dichiarata soddisfatta, Impressum, l’Associazione dei giornalisti svizzeri, si è espressa criticamente in quanto la modifica non prevederebbe un’equa remunerazione per l’utilizzo online di articoli e foto da parte delle grandi piattaforme digitali (quello che nella direttiva europea corrisponde all’Articolo 11). Anche Suisseculture ha preso posizione, rilasciando una dichiarazione secondo la quale «i fornitori guadagnano miliardi sulle piattaforme online in cui opere letterarie e artistiche sono proposte in massa, senza regolamentazioni in materia di diritti d'autore e senza che gli artisti vedano un solo centesimo».
Anche se il testo prevede misure volte a ridurre la discrepanza fra l’aumento esponenziale della fruizione di contenuti online e il guadagno che ne deriva, secondo le associazioni di categoria non è stato fatto abbastanza per tutelare autori ed editori. Se poi consideriamo che il «mercato» è ormai globale, un giornalista oppure un fotoreporter svizzero potrebbe ritrovarsi nella paradossale situazione di ricevere un compenso da Google senza riuscire a esigere pari diritti da una piattaforma locale.

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