Ticino7

Mladà Boleslav: di uomini, bulloni e bottiglie

La cittadina ceca in cui si producono le Škoda non è certo bella, ma ha il suo fascino

(Mladà Boleslav)
21 aprile 2018
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Pubblichiamo un articolo apparso venerdì 20 aprile su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il finesettimana

In un bar dimenticato fra rotaie arrugginite e vecchi casermoni, un Hemingway analfabeta con la barba ingiallita farfuglia parole incomprensibili al suo boccale di birra. Il barista zoppo osserva la scena con uno straccio fetido in mano, e pare più preoccupato dalla mia cravatta incongrua che dai calzettoni di lana rossa della cameriera, sguardo sbilenco e polpacci imbolsiti. Stacca il turno di notte dei saldatori, e le slot machine si riempiono di suoni e fumo di sigarette, ripescate quasi intatte dalle tasche di tute verdeoliva. Qui è la cucitura sfilacciata, il fildiferro che tiene insieme la storia del socialismo con quella di un capitalismo sghembo, in una transizione straziante. Un mondo in cui il tuo unico angelo custode è un capofficina, un tizio che sa dimenticare moglie e figli per uno slivovitz e una partita a stecca, capace ancora di bere senza diventare troppo aggressivo.

Cicatrici

Mladà Boleslav non è una bella città. Ve lo dico subito, ché non vorrei poi dovervi rimborsare la corsa che da Praga vi porta a questa cicatrice industriale, un fegato malconcio piantato fra le campagne della Boemia centrale. L’ufficio del turismo racconta che ci troverete un castello del decimo secolo, e che un tempo la cittadina ospitava una fiorente comunità ebraica. C’è anche un piccolo centro storico, di quelli che offrono portici tirati a lucido e pizzerie dove mettono l’aglio anche nel tiramisù: ultima Tule della sanmarinizzazione che ha già violentato Praga. Evitatelo: chi l’ha detto che si debba sempre viaggiare verso paradisi naturali e capolavori artistici? Se volete i castelli restate a Bellinzona, almeno vi risparmiate il solito torcicollo da volo low cost. A Mladà, ci si va per lo squallore.

Perché Mladà è anzitutto Škodaland: una città del socialismo reale, pensata a colpi di piani quinquennali attorno alla fabbrica di auto. Enorme cattedrale industriale, città nella città in cui gli operai sono pagati molto meglio che altrove, ti assicura la guida interna. E con l’arrivo dei capitali tedeschi non devono più fare file lunghe un isolato per un petto di pollo o due banane (sporadica sorpresa importata semel in anno dai paesi del socialismo tropicale). Adesso possono uscire dal montaggio-guarnizioni e filare dritti al drive-thru del McDonald’s, a due passi dalla fabbrica, ripetendo per un Big Mac gli stessi gesti meccanici che hanno imparato al reparto. Non che fosse meglio prima, per carità: i vecchi palazzoni operai sono stati ripittati con colori esotici, i soldi sono di più, ma soprattutto la libertà resta una cosa seria, per un popolo ferocemente laico e ironico come quello ceco (generalizzo, lo so: ma leggete quel gran poeta in prosa che è Bohumil Hrabal, se non vi è ancora capitato, oppure le avventure del buon soldato Sc’vèik).

Distopie

«You really like whatever’s f*cked up», ti piace davvero tutto quel che è fuori di testa, mi ha detto mille volte ridendo un amico ceco quando per Škoda ci lavoravo, e a Mladà ci andavo ogni mese, con un Powerpoint sottobraccio e una voglia inestinguibile di filare subito dal mio hemingway alcolizzato. Lo diceva perché mi ostinavo a evitare gli hotel per commessi viaggiatori che si possono prenotare in zona, i soliti Holiday Inn o simili, o i lussuosi ed efebici design hotel di Praga. Piuttosto mi fiondavo subito in un luogo dell’anima: una pensioncina dal nome italiano che in quella malinconia periferica pare quasi un refuso, come d’altronde lo sono stati gli ultimi cent’anni di storia mitteleuropea. Una pensioncina che dopo le dieci di sera ti accoglie con un cancello arrugginito chiuso con una catena da motorino. Chiami dentro, e il più malmostoso dei concierge – ma il francesismo qui è piuttosto fuori luogo – viene a forzarti l’ingresso con un mazzo di chiavi da secondino e una lunga sequela di borborigmi consonantici, che a me, che non conosco la lingua, sapeva comunque di insulti e bestemmie.

Ricordo la mia prima volta, una sera che da Praga mi porta giù un taxista ungherese, e ci ferma la polizia perché il tizio ha il «piede pesante». Mette duemila corone sotto la patente, nel consegnargliela per il controllo, e ripartiamo belli tranquilli. Arrivato alla pensione, decido di concedermi un cliché dello pseudobusinessman in trasferta: whiskyno doppio al bar dell’albergo. Un vecchio bancone, tre sgabelli sghembi, il «concierge» che doppia come barista. Un doppiomalto che pare distillato in una vasca da bagno, senza neanche degnarsi di sloggiare prima il georgiano che c’era immerso. E una prostituta a fine turno che incrocia il mio sguardo per un millesimo di secondo, capendo subito che non è serata. Peccato, perché le calze a rete con le Birkenstock sono una scelta coraggiosa, specie dopo i sessanta.

A che punto è la notte

Le mie giornate erano dettate dalla routine di una missione: andare a chiedere soldi al quartier generale per progetti di marketing: roba di soddisfazione clienti, vendite di paraurti, obiettivi sui carburatori. Varda tì! Staccavo dalla gruccia il blazer buono, mi risistemavo la cravatta con il nodo che mi aveva fatto mio babbo due anni prima, e partivo per la fabbrica puntando tutto sul mio inglese, sulle mie scarpe di coppale e sulla pietà dei grandi capi.

Ma la mia giornata vera cominciava alla sera, quando schivavo gli inviti a cena dei colleghi millantando emicranie, e poi giravo con un impermeabile da ispettore Derrick in mezzo ai palazzoni della periferia. Soffermandomi in quelle piazzette che qualche architetto sadico aveva piantato in mezzo ai falansterii operai. Osservando la goffaggine degli adolescenti che provavano i primi approcci con qualche tracagnotta locale, lo sguardo sbiadito degli eroinomani, i sospiri tristi di mariti di mezz’età che portavano il cane a pisciare, pur di concedersi un’oretta di libertà.

Vita da bar

L’architettura, per capire posti del genere, è la chiave. Perché in mezzo a quei grattacieli affollati di silenzio il sole non arriva mai, neanche d’estate; la fotosintesi dell’anima si blocca all’esofago, e a un certo punto ti accorgi che osservi solo nuche pallide, rigonfie di una delusione che non saprebbero spiegare. Gli androni dei palazzi, imbiancati dai neon, riflettono il verde lucido del ficus di plastica: e quel riflesso incongruo è anche la tua, di vita, con la differenza che lì non fanno neanche lo sforzo d’ingannarsi. Ti prende un’ipocondria dello spirito, e torni al bar di cui sopra.

Bar sport. Un edificio di un solo piano miracolosamente piantato in mezzo all’efficientismo delle torri di abitazioni. E come in ogni bar sport di questo mondo, da Bologna a Boston, puoi stare sicuro che qualsiasi gesto, sguardo, parola ti verrà buttato contro al preciso scopo di farti sentire un estraneo. Persona non grata. Anche se gli scoli due fusti di birra e lasci mance generose, manco fossi un ex Kgb. Ma è solo lì, se non sei un sessuomane, che val la pena di concludere la serata. Ed è poi sublime vagare lungo quei vialoni lunari, incrociando un cane sui marciapiedi deserti, mentre cerchi di ricordarti da che parte sta il tuo albergo.

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