Società

Uomini e capre. La storia di Mauro Magginetti

Pubblichiamo un estratto di 'Volti dell'alpe' (edizioni Salvioni), ritratti di alpigiani della Svizzera italiana

((Ely Riva))
2 marzo 2018
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Di Mauro Magginetti ce n’è uno solo, ma sono almeno in due.

C’è il Mauro di cui si sente dire in giro, il «matto», il provocatore, il burbero che ci accoglie sulla porta dicendoci «arrivederci, potete andare!». Uno che ai suoi becchi dà nomi come Ziggy Marley, Ozzy Osbourne, Kalashnikov. Che vende il suo formaggio a chi vuole lui, e buona lì. Il Mauro coi capelli tagliati alla mohicana (ma a noi ricorda un po’ anche il De Niro di Taxi Driver) e tre massicci cerchi d’oro all’orecchio, che starebbero bene all’Otello di Shakespeare. Il Mauro che difende con un impeto secco le sue simpatie e le sue antipatie, «il mio radicalismo». Radicalismo in senso etimologico, ossia un misto di ribellione e radici; radicalismo il cui animale-simbolo è la capra, e non una qualsiasi: la nera verzaschese, che lui chiama «la vacca del povero», «la capra dei nativi» (anche se «io ne faccio una questione di identità personale, non di razza. Ché poi la razza esiste solo perché esiste il capitale»). Lo stesso Mauro che tiene l’ora solare anche d’estate. Anarchico e biaschese. Che poi spesso, si dice, è la stessa cosa.

Ma si indovina almeno un altro Mauro, dentro a quella specie di corazza donchisciottesca. Passa dalle fessure di un paio d’occhi che si emozionano facilmente, quando evocano il perché di quasi mezzo secolo in alpe. In Cava, Piora, Sceng, ma dal 1977 sempre e solo in Lesgiüna, Valle di Giümela, solo un pastore a dargli una mano. Oltre Pontirone. Appendice di un’appendice, ultimo avamposto, verde e nascosta. «Il mio punto fisso, una valle dimenticata dove passa solo chi cerca il silenzio». Come i pochi viandanti che da lassù vede passare sul sentiero, e che spesso accoglie: «Perlopiù forestieri, ma il silenzio è rumoroso: muove qualcosa dentro che invoglia la gente a parlarti, tirano fuori di tutto e non se ne accorgono nemmeno».

Mauro ricorda, nell’ordine: due missionari bernesi nel Sudest Asiatico, «uno era anche andato ad aiutare i Vietcong»; una coppia di professori svizzerotedeschi che insegnavano a Osaka e si facevano ottanta chilometri in coda, mattina e sera; un giudice che era arrivato su sfinito dal sentiero, ma anche dal fatto che «è giunto alla conclusione che fa due vite: quella da uomo e quella da giudice». Tutti accomunati dal fatto di capire al volo che «l’alpe è acqua, aria, animali, pascoli, pietre, cascate». Mauro lassù fa amicizia con gli uomini, ma non si offende se gli dici che sta bene in mezzo alle capre. E le sue sono quasi duecento, fra lattifere e non: «Le capre sono amiche fra di loro, e se le tratti come si deve diventano anche amiche tue. Ti stupiscono sempre per come sono collaborative, regolari, generose nella produzione. Anche se sei tu che ti devi adattare a loro, non viceversa. La capra è abitudinaria». E lui munge esclusivamente il suo gregge, a mano, perché «se conosci tutte le bestie che mungi, allora senti sempre la responsabilità di trattare anche il loro latte come si deve». Tanto che anche la casata diventa un rito. «Ogni anno faccio una casata quando arriva l’ultima notte di luna piena, quando la luna illumina i prati e le ombre sono ben definite; poi una la faccio al solstizio».

«La mia vita è il cuore che l’ha scritta». Ma cos’è il cuore, in alpe? «Il cuore è dare sempre una lettiera dorata a otto maiali, con la paglia pulita; è quello che ti dà la forza di alzarti, che ti fa sentire la responsabilità per i tuoi animali; e anche per gli uomini, anche se spesso alla generosità si risponde col calcolo». Quello stesso cuore lo ha trascinato via da una vita che non era la sua: gli studi alla scuola di commercio, «che ho finito contro la mia volontà, come gli ho scritto nell’ultimo tema!»; i progetti paterni di averlo economista a San Gallo; e tre sciagurati mesi da contabile in un ufficio pubblico: «Avevo i capelli lunghi un metro e venivano dagli altri uffici solo per vedermi. Tanto, di lavoro ne avevamo fino al 10 del mese, poi al massimo rivedevamo quello che avevamo sbagliato prima; c’era uno che si portava i libri di storia dell’arte da casa. Con me in ascensore non ci voleva salire nessuno, per via del mio patchouli». Meglio le capre, meglio «le tradizioni della transumanza». Meglio l’alpe.

Quel Mauro lì – sinceramente dispiaciuto perché ci teneva ad offrirci una bottiglia di latte, ma gli si è rotta per strada – è un altro di quegli alpigiani per amore, che riescono allo stesso tempo a fare il muso duro e a ridere con gli occhi. Nel suo discorso su cosa fa un buon pastore e un buon casaro, ma anche un buon uomo in genere, infila spesso senza accorgersene la parola «cultura». Non tanto la cultura dei libri, anche se si capisce presto che ne legge: ci tiene alla «coscienza sociale», sa indignarsi non solo per quello che accade nel suo giardino, e ha l’intelligenza per capire che «poi alla fine siamo tutti educati nella cultura del capitale. Per cui rischiamo sempre di criticare solo quello che non ci fa comodo». Ora sta studiando il Bernerdütsch, «ma è difficilissimo». Soprattutto, però, parla della cultura che lo spinge a curare con la massima attenzione tutti gli aspetti della sua attività, a valutare con serietà e senza compromessi (avevate dubbi?) ogni aspetto del mestiere. Mauro in fondo è anche quello che cerca aiutanti «con quel minimo di senso critico, che poi ti aiuta anche a imparare a far bene quello che fai». E che definisce il suo lavoro con un motto quasi benedettino: «Dove prendo, do».

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