Società

Dietro la maschera, una comunità

Accade in Ticino. Nello stesso quartiere, stessa piazza, a poche ore di distanza il funerale di un bimbo malato e il carnevale. È questa la comunità?

7 febbraio 2018
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Il sole splende generoso sulla piazza. Finalmente, il sabato del villaggio. Il serpentone si allunga, tutti fiduciosamente in attesa del proprio risotto, risarcimento pattuito dopo una settimana di fatiche. I bambini schiamazzano e si rincorrono, si tendono imboscate armati di schiuma e coriandoli. Un paio di ragazzini fanno esplodere un petardo troppo rumoroso, due agenti li redarguiscono bonari. Qualcun altro dà avvio alla sua maratona alcolica, metodica reiterata liberazione da sé. Ecco il rito annuale che riunisce chi vive gomito a gomito, spesso senza conoscersi. E mi pare surreale rivedere qui, su questa stessa piazza, la piccola bara bianca. Era ieri, poche ore fa.

La voce di Jannacci odiosamente distorta in forma dance richiama all’imperativo dell’allegria, “E la vita, la vita, e la vita l’è bela, l’è bela, basta avere l’ombrela, l’ombrela ti ripara la testa, sembra un giorno di festa”. Dunque, in questa piccola comunità di provincia che ora esibisce la propria vicinanza, il mistero inesplorabile – inaccettabile – della morte di un bimbo malato lascia così poco spazio al silenzio, alla condivisione del dolore di chi, a qualche decina di metri da qui, sta piangendo? Ritorna il ricordo di un’estate di tanti anni fa, un paese del sud. Un giovane era morto, quella sera al mio compagno di giochi sua madre vietò l’appuntamento con i cartoni in tv. Ma perché?!, la domanda. Perché un ragazzo è morto e non facciamo finta di niente, la risposta. A ciascuno la propria responsabilità nell’indicare ciò che è giusto, a cominciare da chi amministra una comunità.

Il cimitero, a pochi passi, oggi è chiuso. Tutto inutile. Aggirare il cancello laterale è un gioco. Una zebra e una coniglia vagano divertite fra le siepi. Poi ricompaiono, si siedono sul muretto di cinta, un’ombra improvvisa negli occhi. Compare un gruppo di animali imprecisati, anche la loro esplorazione si arresta. Silenzio. Quello che sembra un canguro si fa carico di dirlo per tutti: “Lì c’è la tomba del bambino”. Da qualche parte la loro coscienza si agita, li interroga, è forse il dubbio che qualcosa non torni in questa giornata. Ma il mondo degli adulti sguaiato chiama, “La scimmia nuda balla, Occidentali’s Karma”…

Lo spettacolo dell’esibizione del proprio bisogno d’una qualche gioia, oggi, più che oltraggioso mi pare sinistro, isterica centrifugazione di una civiltà. La vita va avanti, sì, nonostante tutto, nonostante la voglia di gridare contro il cielo che un bimbo è morto, proprio qui, ieri. Ma non può esserci autentica ripartenza senza pausa, senza prima levarsi la maschera; ci può essere rimozione dopo che si è entrati in risonanza con ciò che ci accade e accade attorno a noi, se no il nostro esserci, qui e ora, si riduce a negazione: di ciò che non ci piace, di ciò che ci turba, di noi stessi. La prima cura per chi soffre, da sempre, è la partecipazione emotiva del resto della comunità. Solo così, ricuperando l’empatia perduta, e dentro di sé lo spazio per un attimo di autentica condivisione, si può tornare ad essere, appunto, una “comunità”; degna di dire, come un piccolo guerriero, “siamo forti”.

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