Scienze

Il problema delle bufale non è solo online

Tanti studi sulle fake news online, ma la maggior parte delle persone si informa attraverso la televisione: secondo una ricerca, serve una visione più ampia

4 aprile 2020
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Che la cattiva informazione sia un problema è più o meno riconosciuto da tutti – del resto, anche senza fare ricorso a formule abusate come quella di “civiltà dell’informazione”, con i nuovi strumenti digitali abbiamo accesso a una quantità di informazioni inimmaginabile solo alcuni anni fa, quando c’erano solo il passaparola delle persone o i media tradizionali quali stampa, radio e televisione. Ed è sulla base delle informazioni che riteniamo vere o comunque affidabili, che prendiamo decisioni più o meno importanti.

Ma sarebbe riduttivo pensare che il problema siano solo “le fake news su internet” – soprattutto perché, per quanto detto prima, per prendere decisioni efficaci e consapevoli occorre una buona conoscenza del fenomeno e non disponiamo ancora di una scienza delle fake news, nel senso di una conoscenza solida e condivisa che ci permetta ad esempio di valutare in maniera chiara diffusione e influenza. Quello che manca è un consenso generalizzato, perché di singole ricerche sulle fake news nei social media ne abbiamo molte – forse troppe, secondo quanto scrivono Jennifer Allen e colleghi in un articolo pubblicato su ‘Science Advanced’ (‘Evaluating the fake news problem at the scale of the information ecosystem’). Perché mentre gli studiosi, negli ultimi anni, si sono buttati sulle fake news cercando di studiarne la diffusione online, la loro presenza nella “dieta mediatica” (quel che le persone leggono e guardano) è trascurabile, minore all’1%. Anche per le persone con più di 55 anni – la fascia d’età più suscettibili alla disinformazione online secondo praticamente tutte le ricerche – si tratta di una minima parte delle informazioni online. E, proseguono gli autori, non solo l’online rimane ancora minoritario rispetto alla televisione, ma i contenuti di puro intrattenimento sono comunque la maggior parte.
Da notare che, per quanto ovviamente i numeri varino ovviamente da Paese a Paese, sono dati che ritroviamo anche negli studi europei. Secondo Monitoraggio media Svizzera (www.monitoraggio-media-svizzera.ch), ad esempio, radio e televisione contribuiscono ancora per oltre la metà alla formazione delle opinioni.

Leggendo i numeri forniti da Allen e colleghi, difficile non farsi l’idea di una comunità scientifica che, sorseggiando un martini e sfogliando l’edizione digitale di qualche rivista letteraria, sospira “ah le fake news su Facebook” senza rendersi conto che la maggior parte delle persone passa il proprio tempo non sui siti e gruppi complottisti, ma con la televisione accesa. Per quanto l’immagine almeno in alcuni casi potrebbe non essere così lontana dalla realtà, vi sono da fare alcune precisazioni. La prima è che per condurre questa ricerca – ma la prassi è abbastanza diffusa – le fake news vengono identificate in base al sito di provenienza: si vanno insomma a considerare solo siti complottisti e le cosiddette “fabbriche di fake news”, i finti siti di informazione gestiti o per far soldi con la pubblicità, o per disinformazione – ma la disinformazione ha una circolazione anche più ampia, finendo anche su altri siti, soprattutto quando viene ripresa da politici. Inoltre, quanto evidenziato da Allen e colleghi riguarda il consumo, non l’influenza: può essere che una fake news online sia più efficace, nel far cambiare idea, di un servizio televisivo per quanto fazioso. Il che non è affatto un’ipotesi peregrina, tenendo conto che i social media permettono una segmentazione molto fine del pubblico, insomma di puntare direttamente sulle persone più suscettibili al (falso) messaggio. E in caso di opinione pubblica spaccata più o meno a metà – gli esempi più studiati sono il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump –, basta poco a cambiare l’esito di una votazione.

Del resto nell’articolo lo si legge chiaramente nelle conclusioni: l’idea non è sminuire il pericolo sociale rappresentato dalla cattiva informazione, ma piuttosto l’importanza di guardare a tutto il sistema mediatico e informativo, non solo alle fake news che troviamo online.

Prendendo ad esempio in considerazione anche le comunicazioni ufficiali sull’epidemia del nuovo coronavirus, alle quali Heidi J. Larson, direttrice del Vaccine Confidence Project, ha dedicato un impietoso commento su ‘Nature’ (‘Blocking information on COVID-19 can fuel the spread of misinformation’). Impietoso perché in diversi Paesi – Larson cita Iran, Stati Uniti, Cina e Russia, ma l’elenco non è certo completo –, vuoi per rassicurare l’opinione pubblica, vuoi per questioni di propaganda, i governi hanno divulgato informazioni false o smentito informazioni vere, ad esempio sul numero di contagi o sulla disponibilità di test diagnostici. Il problema, argomenta Larson, è che anche se in buona fede agendo in questa maniera le autorità perdono di credibilità. A rimetterci non sono tanto le autorità governative – che possono compensare con l’autorità la perdita di autorevolezza –, ma il sistema nel suo complesso: la cattiva informazione ufficiale diventa infatti terreno fertile per le vere fake news come l’origine artificiale del virus.

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