Ha vinto per la sua opera ‘avvincente e visionaria’. A lui plaude anche la destra populista ungherese, che gli aveva dato del calunniatore

“È un grande scrittore epico di tradizione centroeuropea, che spazia da Kafka a Thomas Bernhard, caratterizzato dall’assurdo e dal grottesco”. “Esplora anche toni più contemplativi, traendo ispirazione dall’Oriente”. Oltre alla “sintassi ampia e tortuosa” che è diventata “il suo segno distintivo come scrittore”, il suo stile consente anche “una certa leggerezza e una grande bellezza lirica”. Parole di Steve Sem-Sandberg, tra i membri del comitato della Svenska Akademien, scelte per ufficializzare – alle 13 in punto di oggi – il conferimento del Nobel per la Letteratura allo scrittore ungherese László Krasznahorkai, “per la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte”. Krasznahorkai, 71 anni, esplora nei suoi romanzi un mondo caratterizzato da attese infinite, da sospensioni e ritorni, racconta il lento disfacimento sociale e materiale di una realtà che sembra sempre sul punto di cambiare, per non cambiare mai. Un cambiamento nel quale lo stesso autore non crede. Così come i suddetti Kafka e Bernhard, Krasznahorkai indaga la realtà fino al limite della follia, descrivendo minuziosamente fatti e persone. Le frasi lunghissime, tutte subordinate, sono tutte parte integrante di un ‘Maestro dell’apocalisse’, come lo definì una trentina di anni fa l’omologa Susan Sontag.
Tra romanzi e raccolte, lo scrittore ungherese ha vinto tutto, dall’International Man Booker Prize nel 2015 al National Book Award for Translated Literature nel 2019 e ora il Nobel, questa volta conferito – diversamente da quanto accade di solito – a uno scrittore indicato da anni tra i papabili.
László Krasznahorkai nasce il 5 gennaio del 1954 in una famiglia ebraica nella città ungherese di Gyula, sud-est dell’Ungheria, a due passi dal confine con la Romania. Quell’area rurale remota segnata da una desolazione non solo fisica torna spesso nei suoi libri. Come nel primo romanzo, ‘Satantango’, del 1985, successo letterario in patria e momento di svolta della sua carriera. È la storia di un gruppo di residenti indigenti in una fattoria collettiva abbandonata nella campagna ungherese, che attendono il ritorno di Irimiás, un uomo che credono li possa salvare. Figura ambigua e manipolatrice, Irimiás promette loro un futuro migliore ma li conduce verso un’ulteriore rovina. Il titolo del romanzo ne anticipa la struttura, che rimanda a quella del tango: sei passi avanti e sei indietro, a simboleggiare la ciclicità e l’illusorietà del cambiamento. “L’elemento satanico invece – scrive l’Accademia di Svezia nelle note biografiche dedicate allo scrittore – è presente nella moralità da schiavi dei protagonisti e nelle finzioni di Irimiás, tanto efficaci quanto ingannevoli”.
In ‘Satantango’ ci si attende che da un momento all’altro si compia un miracolo, ma la speranza è sin dall’inizio smontata dal motto kafkiano introduttivo del libro: ‘In tal caso, mi perderò la cosa aspettandola’”. Il romanzo esiste anche nella versione cinematografica del 1994, oltre 7 ore di film in bianco e nero che si devono al regista Béla Tarr. Nel corso degli anni, Krasznahorkai aveva fornito al connazionale già altre storie, incluso il soggetto per ‘Kárhozat’ (Perdizione), film del 1988.
Susan Sontag chiama Krasznahorkai ‘Maestro dell’apocalisse’ dopo avere letto il secondo libro dello scrittore, ‘La melancolia della resistenza’ (1998), sorta di fantasy horror ambientato in una cittadina ungherese sita in una valle dei Carpazi, che piomba nelle tensioni e nella paura dopo l’arrivo di un misterioso circo con una balena impagliata. In quella che è una riflessione sulla fragilità della civiltà e sull’illusione del controllo, l’autore ritrae – tra il lirico e il grottesco – la lotta tra ordine e disordine e il terrore da essa prodotto.
‘Guerra e guerra’, del 1999, dall’andamento picaresco, narra le vicende di György Korin, archivista di provincia che scopre un manoscritto misterioso e decide di trascriverlo per salvarlo dall’oblio. Spinto da un’urgenza interiore, lascia l’Ungheria e si trasferisce a New York, dove vive in condizioni precarie mentre cerca di completare la sua missione. Il manoscritto racconta la storia di quattro uomini che attraversano epoche e luoghi devastati dalla guerra, in una narrazione che si intreccia con la follia e la disperazione di Korin stesso, ossessionato dall’idea di preservare la bellezza e la verità del testo, convinto che contenga un messaggio universale sulla condizione umana. ‘Guerra e guerra’ è una sorta di anticipazione de ‘Il ritorno del Barone Wenckheim’ (2019), in cui Krasznahorkai gioca con la tradizione letteraria: l’idiota di Dostoevskij si reincarna in un barone dipendente del gioco d’azzardo, che dopo anni di esilio in Argentina sta tornando in Ungheria e spera di ricongiungersi con l’amore d’infanzia, mai dimenticata. Nel corso del suo viaggio, Wenckheim si affida al perfido Dante, una specie di Sancho Panza mascalzone.
Meno apocalittico è ‘Herscht 07769’ (2021), ambientato nella quotidianità di una cittadina contemporanea della Turingia, nella Germania post-comunista, afflitta da anarchia sociale, omicidi e incendi dolosi. Qui il giovane Florian Herscht scrive ogni giorno alla cancelliera Merkel per avvertirla di un imminente collasso della realtà, convinto che un disequilibrio tra materia e antimateria possa distruggere il mondo. L’ossessione nasce da fraintendimenti di fisica quantistica trasmessigli da un meteorologo dilettante, il signor Kohler, misteriosamente scomparso.
I viaggi in Cina e Giappone hanno prodotto anche un Krasznahorkai più contemplativo. Lo si ritrova in ‘Una montagna a nord, un lago a sud, sentieri a ovest, un fiume a est’ (2022), racconto lirico e meditativo ambientato nei pressi di Kyoto, che intreccia il pellegrinaggio spirituale di un uomo contemporaneo con la memoria del principe Genji. Altra testimonianza dell’ampio registro letterario di cui dispone l’autore è il racconto breve ‘Lavori preparatori per un palazzo: entrare nella follia degli altri’, pubblicato nel 2018, lucida e spassosa follia ambientata a Manhattan, tra il fantasma di Herman Melville e quelli dei suoi ‘fan’. I racconti di ‘Seiobo è discesa quaggiù’ (2021) sono un’indagine sull’arte che tocca anche l’Italia, dalla Firenze del Perugino alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia.
Quello conferito a László Krasznahorkai è il secondo Nobel per la letteratura ungherese, ventitré anni dopo Imre Kertész. “Sono molto felice, calmo e molto nervoso allo stesso tempo”, ha dichiarato lo scrittore, fresco di Nobel, alla radio svedese SR. Nell’intervista ha citato il ‘suo’ Kafka, la ‘sua’ Kyoto e Jimi Hendrix quali fonti d’ispirazione. A Le Monde ha ricordato di quando, nel 1987, si era trasferito a Berlino e di come la caduta della cortina di ferro lo avesse portato a viaggiare per il mondo. Ha detto dei giorni di letture assidue di Melville, Gogol e Beckett e dei lunghi soggiorni in Asia negli anni 90. Dopo essere stato a lungo nomade e aver vissuto nella capitale tedesca, si è stabilito per un periodo a Trieste per sfuggire all’atmosfera di regime del leader ungherese Viktor Orbán.
A questo proposito. In patria, i principali politici raramente si sono dimostrati così uniti come dopo l’annuncio dell’Accademia svedese: “Primo premio Nobel di Gyula” e “orgoglio dell’Ungheria”, ha scritto il Primo ministro populista di destra Viktor Orbán su Facebook, in direzione opposta all’opinione che la destra ungherese ha avuto del suo scrittore sino a poco prima: nel non lontanissimo 2018, il portavoce di Magyar Idök lo aveva inserito, insieme ad altre trenta importanti personalità letterarie, in una lista di “leader d’opinione di sinistra liberale (...) che calunniano gli ungheresi e il Primo Ministro Viktor Orbán”. Lo sfidante liberale di destra di Orbán, Peter Magyar, sempre su Facebook: “I migliori romanzi del nuovo premio Nobel ungherese descrivono la campagna ungherese dimenticata, il mondo delle persone oppresse dal potere”. Sulla stessa linea è il sindaco verde-liberale di Budapest, Gergely Karacsony.
Il suo prossimo romanzo, ‘Panino non c’è più’, uscirà per Bompiani nel 2026. Lo annuncia la stessa casa editrice che affida alle stesse parole del grande scrittore, tratte da una recente intervista, il senso del suo scrivere che indirettamente è anche un ritratto dei nostri tempi: “Abbiamo bisogno che ci mentano dicendo che abbiamo motivo di sperare. Di questo abbiamo bisogno. Tanto sappiamo benissimo di non avere alcun motivo di speranza. Che ci mentano e ci dicano che andrà meglio, che sarà tutto più luminoso, che sarà più lungo ciò che è breve, che sarà più lento ciò che è veloce. Preghiamo Dio e temiamo il Male. Non ci lasciamo mai alle spalle l’infanzia”.
A ruota, arrivano anche le dichiarazioni del vincitore a Jenny Rydén del Premio Nobel: “Mi rattrista molto pensare alla situazione attuale del mondo, l’essere umano è la mia ispirazione più profonda”. Krasznahorkai si dice “molto felice e orgoglioso perché far parte di una stirpe che annovera così tanti grandi, davvero grandi scrittori e poeti mi dà la possibilità di usare la mia lingua, la mia lingua madre, l’ungherese”. La sua prima giornata da Premio Nobel l’ha trascorsa “nell’appartamento di un amico malato, sono andato a trovarlo a Francoforte sul Meno”. Pur essendo tra i favoriti, ha detto di essere “assolutamente sorpreso” e comunque questa sera farà festa. “Forse prepareremo una cena con i miei amici, con vino Porto e champagne”.
Un cenno all’Italia, dove ha vissuto: “A scuola, in Ungheria, ho studiato il latino, e il Rinascimento italiano è stato sempre il mio grande amore. Quando sono in Italia è come se mi dessero una botta in testa, perché da ogni parte mi arriva un’influenza fortissima”. Quanto a Orban e soci, “non finiscono di parlare della storia gloriosa ungherese, e il loro dire è ridicolo: la storia dell’Ungheria non è altro che una serie di sconfitte”.