Presentato come un’esagerazione, alla terza stagione è più vicino alla nostra quotidianità di quanto non fosse all'uscita della prima
“Hai ancora fiducia nelle persone?”, chiede il personaggio chiamato Front Man, il cattivo della serie, al protagonista, il concorrente numero 456. E noi, abbiamo ancora speranza dopo tre stagioni di ‘Squid Game’? E soprattutto: ‘Squid Game’ è una critica al cinismo, al materialismo, alle dinamiche violente del neoliberismo, o piuttosto una specie di rassegnata constatazione che non potrebbe essere altrimenti, che lo abbiamo voluto noi un sistema che ci costringe a gareggiare gli uni contro gli altri come fossimo in un gioco a premi?
La seconda stagione, uscita a inizio anno, è in realtà un tutt’uno con questa terza, che riprende il filo della narrazione dove si era interrotto. Ovvero: i concorrenti di ‘Squid Game’, guidati dal numero 456 (vincitore dell’edizione precedente, tornato in gioco per provare a sabotarne il meccanismo) hanno tentato una piccola insurrezione, rubando le armi alle guardie con l’obiettivo di arrivare nelle sale di comando. Dopo una piccola battaglia che non rimarrà in nessun libro di storia sono morti quasi tutti e la cosa peggiore è che si deve ricominciare a giocare. 456 è comprensibilmente depresso, nella rivolta gli hanno ucciso davanti agli occhi un amico d’infanzia, e forse a questo punto non ha più speranza per l’umanità. Nel frattempo, però, una concorrente incinta ha fatto nascere un bambino, dentro ‘Squid Game’, va da sé che 456 prende a cuore la questione, che quella diventa la sua speranza. Ma al di là del significato simbolico che può rappresentare, il neonato porta con sé conseguenze molto pratiche: se la sola legge di ‘Squid Game’ è quella di natura, i più deboli muoiono, come può sopravvivere lui, anzi lei, che è la più debole di tutti?
Le sotto-trame dei concorrenti vengono sciolte in vari bagni di sangue, alcune morti sono persino soddisfacenti, dal punto di vista drammaturgico, ma la cosa più interessante di ‘Squid Game’ restano i giochi. Giochi sempre più esplicitamente crudeli. C’è una versione di nascondino in cui metà dei concorrenti deve trovare e uccidere, con un coltello, l’altra metà. C’è un ponte da attraversare mentre delle bambole-robot giganti fanno girare una corda da saltare per non cadere nel vuoto (e volendo i concorrenti possono approfittarne per spingersi di sotto). Se nella prima stagione l’interesse per ‘Squid Game’ nasceva anche dal modo in cui rielaborava la nostalgia del suo autore, Hwang Dong-hyuk, nei confronti dei giochi tradizionali coreani – come se il passato dorato dell’infanzia fosse riemerso sotto forma di incubo – adesso si tratta solo di ammazzarsi a vicenda. Chi uccide chi? In quanti moriranno? E in che modo 456 arriverà fino alla fine, seppur controvoglia?
Sono stato molto critico, in passato, con ‘Squid Game’. Mi infastidiva, e mi infastidisce tutt’ora, il fenomeno pop nato da ‘Squid Game’. I costumi rosa con le maschere nere delle guardie, che i bambini indossano ad Halloween, le varie emulazioni messe in piedi dei giochi, o anche le versioni reali, con concorrenti in carne e ossa, prodotte sia da Netflix (‘Squid Game: The Challenge’) che da Amazon Prime (‘Beast Games’). Manca solo la versione cartone animato per bambini sotto i dodici anni. In fondo c’è l’idea che se non si vede il sangue, o un corpo esanime, non ci sia violenza: è il principio alla base del videogioco ‘Fortnite’ il cui successo nelle collaborazioni con il mondo Star Wars o Marvel, o proprio con quello di ‘Squid Game’ (oggi si possono usare personaggi vestiti come concorrenti o guardie di ‘Squid Game’ all’interno del gioco), si spiega anche col fatto che i corpi spariscono nel nulla e non c’è il realismo di ‘Call Of Duty’, per fare l’esempio di un gioco simile. Il che non significa che in ‘Fortnite’ non ci sia rapporto con la realtà, semmai quel rapporto si sposta su un livello più profondo e per questo subdolo. Trattandosi di una serie tv, ‘Squid Game’ fatica maggiormente a nascondere il proprio rapporto con la realtà (di sangue ce n’è sempre molto). Ci prova mettendosi la maschera della satira.
‘Squid Game’ è presentato come un’esagerazione, un contesto limite, quasi una riflessione filosofica sulle bassezze e le altezze dell’animo umano. Ma a ben guardare, è più vicino alla nostra quotidianità rispetto a quando non fosse quando è uscita la prima stagione, nel novembre del 2021. Non era ancora cominciata l’invasione russa in Ucraina, per dire. Non c’era stato il 7 ottobre né tutti i giorni dopo, uno più terribile dell’altro. Sui giornali, quattro anni fa, non leggevamo di soldati che sparavano su civili in coda per avere degli aiuti umanitari. Nessun governo pubblicizzava col sorriso sulle labbra campi di concentramento circondati da alligatori, in cui rinchiudere persone comuni senza un regolare processo. Su YouTube, o Facebook, o X (che non si chiamava neanche così) non vedevamo ogni giorno video di droni assassini e missili che illuminano il cielo notturno. Ma facciamo un esempio più specifico.
Circa sei mesi fa è circolato il video di un combattimento tra un soldato russo e uno ucraino armati di coltello. Ha la meglio il russo (premiato poi da Putin col titolo di ‘Eroe di Russia’) che prima di andarsene, e lasciar morire il suo avversario, con la voce emozionata e, si direbbe, dispiaciuta, si complimenta con lui per come ha combattuto. È un video che fa venire il mal di stomaco. Pur non vedendosi quasi niente (il punto di vista è quello della body-cam sull’uniforme dell’ucraino), solo con i rumori, i respiri affannati, i grugniti, percepiamo tutta la disumanità della guerra, dell’essere umano che uccide l’essere umano. Non c’è trama, racconto, motivazione che possa giustificare una cosa del genere, l’unica reazione sana di fronte a una cosa del genere è il più totale rifiuto (mi viene in mente un altro video incrociato sui social, in cui Franco Battiato intervistato da Gianni Minà dice: “Per non ammazzare un uomo farei andare uno Stato in miseria”).
‘Squid Game’, come tutti i film e serie post-apocalittici, ormai sembrano faticare a stare dietro ai mutamenti della realtà. Figuriamoci a criticarli. In ‘Squid Game’ ci sono i più o meno buoni e i più o meno cattivi. Ma nessuno si redime, nessuno realizza qualcosa su cosa significhi essere umani. La violenza è una condizione esistenziale, ci bagna come l’acqua bagna i pesci, i più coraggiosi di noi possono sacrificarsi, oppure scegliere bene chi uccidere, perché, ma non c’è via di scampo. ‘Squid Game’ è nato come metafora dei meccanismi competitivi interni alle società capitaliste ma è finito per rappresentare un’idea di umanità orribile, indipendentemente da quegli stessi meccanismi. Si è spogliato progressivamente di ogni complessità concettuale, i giochi sono diventati col tempo meno elaborati e i rapporti tra concorrenti sempre più semplici. I concorrenti di Squid Game - l’umanità rappresentata da uno dei prodotti seriali più di successo del decennio - si possono dividere in due gruppi: chi è stato ucciso e chi uccide. O forse, meglio: chi è stato ucciso e chi sta per venire ucciso. La speranza in ‘Squid Game’ è solo una questione di tempo.