Esce mercoledì la raccolta di racconti di Alberto Nessi su pittori venuti in Ticino ‘in cerca della faccia luminosa del mondo’. Ne parliamo con l’autore
Si snoda lungo una personale geografia affettiva – quella che lo stesso autore ci ha abituati a riconoscere e ogni volta a riscoprire – l’ultimo libro di Alberto Nessi ‘In cerca della luce. Storie di artisti venuti in Ticino’ (Edizioni Casagrande, Bellinzona). Un volume composto da nove racconti “inventati dal vero” incentrati ognuno su uno o più pittori – spesso giovani con in tasca il sogno di poter vivere della propria arte – che nella prima metà del Novecento arrivano in Ticino, ognuno per la sua strada, in cerca della “faccia luminosa del mondo”. Diversi hanno vagabondato prima di insediarsi in piccole località del Mendrisiotto – Coldrerio, Castel San Pietro con la frazione di Obino, Ligornetto – o altrove in Ticino – Ascona, Montagnola – e diversi in questi paesini vi muoiono, non di rado dopo un’esistenza di ristrettezze. Sono interessati alla realtà che li circonda, e mentre alcuni restano nelle retrovie a osservarla, altri si mescolano con gli abitanti. Ci sono gli artisti del Gruppo Rot-Blau che amano frequentare le osterie e giocare a bocce; c’è Jean Corty dedito alle bevute nei ristoranti e nei night; c’è Marianne Werefkin habituée del Caffè Verbano.
È “per quel verde, per quella bellezza, per quella luce che ho scritto questo libro”, esplicita Nessi nell’introdurlo, riferendosi al Mendrisiotto di allora dove il verde splendeva tra le chiazze dei villaggi e gli avvallamenti. Una bellezza scomparsa, a differenza della luce che la illuminava e delle linee che ai margini della pianura “segnano la cerchia dei monti d’intorno”. «Ho abitato per 25 anni a Coldrerio in una casa d’angolo a pochi passi da dove visse Albert Müller. Lo vedevo spesso nella mia immaginazione», ci dice Nessi del primo protagonista, di cui segue vicende artistiche e disgrazie umane. Lo vedeva nella sua mente “talvolta svoltare nel vicolo odoroso di sterco di vacca, fermarsi davanti alle erbe che crescono tra i sassi del muro a secco che lo cinge – scrive –. Vedevo la sua testa, inquieta e tragica, di artista destinato a morire presto, gli facevo un cenno con la mano. Lo vedevo poi inoltrarsi tra le vigne i colli le case”. In una lettera, il pittore basilese dice che l’unico posto in Svizzera in cui si sia sentito felice è il Mendrisiotto. “Anche per quella felicità, presto perduta, ho scritto questi racconti”.
«Ho sempre amato la pittura – rileva Nessi – in particolare quella legata ai miei luoghi di vita. E questo libro nasce proprio da tale legame biografico. Adesso abito in valle, ma sono rimasto un po’ laggiù con la mente. Sono affettivamente attaccato a quei luoghi che tornano spesso in tutta la mia opera, come spesso tornano le figure dei pittori di cui talvolta faccio anche parlare i dipinti, a testimonianza di quanto mi prenda questa forma d’arte».
Il paesaggio rurale è dunque centrale nelle storie di artisti che ne sono rimasti sedotti: con le sue chiese, gli affreschi, i muri a secco, le erbe di campo, i campi di tabacco, i gelsi, le viti – le minuzie care a Nessi, insomma –, i bambini scalzi intorno alla macchina del frumento, braccia che impugnano forche. Ma più che un’operazione nostalgica, quella dello scrittore si presenta come il tentativo di far rutilare in una “seconda bellezza” – per riprendere il titolo di una sua precedente raccolta poetica – quel tempo perduto e quegli elementi che ancora resistono ma a cui non prestiamo più attenzione.
In questa cornice si trovano soprattutto personaggi umili o ai margini che Nessi scruta sempre da una posizione discosta, “solitario e solidale”, come diceva Albert Camus: le donne chine al lavoro nei campi, le filandere che intonano canti, gli operai che tornano al villaggio la sera dopo il lavoro, il Pacìn vestito di sacco che fa spaventare i bambini. «Sì, questo Pacìn esisteva davvero – spiega Nessi –. A Castel San Pietro ho parlato con persone che l’hanno conosciuto e ne serbano ancora memoria. Ho inventato dal vero anche lui attingendo a testimonianze orali». Testimonianze che sono sempre state fonti importanti per l’opera dello scrittore: «Praticamente tutti i miei libri di narrativa contengono un’eco di storie orali che ho raccolto, a volte con il registratore, a volte col taccuino».
Nell’arcipelago delle comparse ci sono pure i pazienti del manicomio di Mendrisio dove viene ricoverato più volte anche Corty che ha un amore per la pittura “grande quanto l’incapacità di astenersi dal bere”. Lui come altri sventurati paiono usciti dall’‘Antologia di Spoon River’, e lo sguardo che Nessi posa su di loro è simile a quello di Edgar Lee Masters: privo di giudizio e compassionevole – nel senso di “patire con” – come lo era quello di un altro dei pittori narrati, “Johannes” Robert Schürch, che in una lettera scrive “io amo tutto della natura e nel mondo, ma specialmente ciò che soffre”. «In effetti ho pure io una specie di empatia con questi personaggi minori e spesso sofferenti di cui parlo, che hanno quasi tutti a che fare con la malattia, con l’inquietudine, con amori infelici – riconosce Nessi –. C’è una sensibilità per l’ombra che fa parte della mia poetica».
L’ombra – quella dei fondi scuri, dei pensieri neri di chi dispera – è il contraltare della luce cercata in questo nostro Sud, dei colori che in certi frangenti del libro quasi si animano, come nel racconto su Marianne Werefkin – la celebre e amata esule russa che ad Ascona chiamavano “nonna” – che fioriscono in splendide sinestesie: “Pensava alle considerazioni di Kandinskij sui colori, alle corrispondenze dei colori con i suoni: l’azzurro è musica di flauto? Il viola suono di corno inglese? Certo, il giallo è una tromba che squilla. E il verde?”. C’è nelle pagine un continuo andirivieni tra tensioni opposte e contraddittorie, il chiaro e lo scuro, l’infinito e l’abisso. Emblematica di queste ambivalenze cromatiche ed esistenziali è la figura del pittore Guido Gonzato che dipinge tutto il giorno, accanitamente, ma toccandosi spesso gli occhi con le mani sporche di colori a olio, blu di Prussia e trementina, li avvelena rischiando di perdere la vista, motivo per cui dovrà portare per sempre, per non far entrare la luce, degli occhialoni neri sul viso. Per Nessi «in tutto quello che scriviamo c’è un po’ di noi. Anche se parliamo di un albero siamo noi. E questi personaggi hanno sicuramente tutti qualcosa di ombroso che appartiene pure a me».
Diversi racconti finiscono con la morte del protagonista, spesso tragica sul piano fisico, ma a cui talvolta Nessi conferisce una sorta di sollievo onirico immaginando i soggetti dipinti dall’artista presentarsi al suo cospetto per il commiato, o forse per accompagnarlo. Ecco allora Corty, che in coma in manicomio, “apre gli occhi un momento e vede una donna velata entrare nel camerone illuminato da una fioca lampadina. ‘Sono la bellezza’ dice la donna, che ha inflessioni profonde nella voce, ‘sono la bellezza. Tu mi hai amato’”. E al suo seguito arrivano “i minatori delle cave, il nudo delle donne e il manto della Madonna, i cavalli che trascinano l’aratro e un campanile sui campi, i proletari sghimbesci e le donne accasciate intorno al Cristo dolente, i giocatori di bocce, i ballerini delle feste campestri, le ortensie di Charlotte…”. Anche se poi “al rito della sepoltura, ad Agno, assistono il fratello e pochi amici”. «C’è un passaggio onirico anche nel finale del capitolo dedicato a Erica Ebinger, che è stata l’amore della vita di Schürch», indica Nessi: “Stanotte ho fatto un sogno. Johannes era tornato dal servizio militare e sorrideva, sotto un ramo di sambuco. Aveva smesso il grigioverde e portava i suoi bei pantaloni color arancione. Aveva perso la malinconia, abbiamo ballato un tango argentino. Il sangue che sputava si trasformava in erica, la pianta che ama la roccia e ha fiorellini rosa resistenti al freddo”. «Sono un realista, nel senso che mi documento su quello che scrivo, però mi immedesimo nei personaggi e mi succede spesso di partire con la mente insieme a loro», commenta lo scrittore.
I finali descritti sembrano anche un modo per rendere eterna la presenza di questi artisti, come se continuassero a vivere nelle loro opere. Meraviglioso è il passaggio su René Auberjonois che, al pari dell’acacia che gli assomiglia nella piazzetta a lui dedicata a Losanna, ogni primavera “rinasce con gli zingari, i saltimbanchi, i senza patria dipinti al Palais de Rumine: vengono tutti qui a sedersi sul muretto, la scimmietta del marinaio si arrampica curiosa sull’acacia e guarda lontano”. Forse l’arte “serve a non farci diventare tutti delle ombre”, come fa dire ad un certo punto a Ugo Cleis? «Di sicuro – risponde Nessi –. L’arte è anche un modo per lottare contro la morte».
C’è, tra i nove proposti, un racconto che possiede un registro umoristico, un po’ inconsueto per stessa ammissione dell’autore: è quello su Hermann Hesse, che è visto attraverso gli occhi di un giovane ammiratore giunto fino alla sua porta di casa a Montagnola per incontrarlo, trovandovi però un cartello che chiede di non disturbare. Allora gli ruba una penna e si inventa la falsa storia di una calorosa accoglienza e di una conversazione nel corso della quale lo scrittore gli confida quali sono i segreti dello scrivere. «Lo studente dice una bugia, ed è proprio in questa sua trovata che si manifesta il bagliore del racconto – chiosa Nessi –. È una presa in giro del Grande Artista che non vuole essere disturbato».
Il libro è attraversato da molteplici itinerari artistici che si intersecano tra loro. C’è una moltitudine di incontri, di visite, di vite che si richiamano e si attirano. Si avvicinano anche i linguaggi: la prosa è intervallata da vari componimenti poetici e in questi ultimi, afferma Nessi, «c’è un tono narrativo che appartiene piuttosto alla prosa, e viceversa nella prosa ogni tanto si accende qualche fiammella poetica». E pure le arti si danno la mano, come mette in scena l’autore nell’epilogo sull’incontro immaginario tra Auberjonois e il poeta Gustave Roud che, metaforicamente, nella realtà hanno convissuto a casa di Nessi: «Di Roud ho tradotto un libro, il “Petit traité de la marche en plaine” – “Del camminare in pianura”, edito da Dadò – mentre di Auberjonois ho avuto in casa per un mese il quadro di donna nuda presente nel racconto. Legami da cui proprio il racconto è nato».
L’orizzonte delle vicende narrate è spesso occupato dalla guerra – quella macelleria umana che vediamo anche nelle attuali cronache quotidiane, benché più lontana – che si manifesta con bagliori sinistri: il rombo lugubre delle fortezze volanti; la morte che passa con la falce attraverso l’Europa; i tedeschi nelle corti, per le strade, nelle cascine, nelle osterie del confine.… Una guerra che lascia tracce nei personaggi e nelle loro opere. E che segna l’avvenire: “Sul bus del ritorno una ragazza mi dice che ha già sentito il nome di Gustave Roud ma che a Mézières c’è anche il generale Guisan. Io stringo bene tra le dita la foto del mio poeta con un fiore in mano”. Il libro si chiude con queste parole. Generale batte poeta per notorietà. Nessi continua però a credere nell’arte come forma di rimedio contro le violenze che devastano il mondo. «Sono forse un illuso, ma sono uno di quelli che in effetti ci credono ancora, non sono un disincantato totale. La fiammella che si accende con l’arte dovrebbe portare a sperare. E il fine dell’arte – su cui tutti i protagonisti del libro si interrogano – è anche quello di non accontentarsi dell’esistente, di far vedere la realtà in un modo diverso, per riscoprirla sotto un’altra luce». L’arte in fin dei conti, conclude Nessi, «è una seconda vista dove sta rinchiuso il mondo».