In ‘L’orso bianco era nero’ (Piemme), Roberto Vecchioni sigilla in un nuovo libro un innamoramento che è anche del lettore
Chissà se Roberto Vecchioni sa che l’orso bianco ha la pelle nera e il pelo trasparente che sembra bianco per un gioco di luce. Probabilmente no. Dice che il titolo trae origine da una storiella che ha sentito che racconta di una discussione tra sofisti (intellettuali greci che, a partire dalla seconda metà del Quinto secolo prima di Cristo, insegnavano e praticavano l’arte della persuasione). La storiella è questa: dopo essere usciti dallo zoo, uno chiede a un altro se abbia visto l’orso bianco. Un altro osserva che potrebbe non essere stato bianco perché dietro forse era nero. Un altro insinua che potrebbe trattarsi di una roccia a forma di orso. Un altro mette in dubbio perfino che siano stati allo zoo. Su qualsiasi cosa si può dimostrare il vero o il falso: è uno dei poteri della parola, non sempre usato in fin di bene purtroppo, e Vecchioni elenca nel libro numerosi esempi.
‘L’orso bianco era nero’ (Piemme) è una dichiarazione d’amore per la parola, non solo quando vuole convincere e mettere in dubbio la realtà, ma soprattutto quando si porta sulle spalle tutta la sua storia fino alle origini del linguaggio, ci permette di trasmettere e di sentire le emozioni, quando diventa gioco e perfino enigma da risolvere. Questo e tanto altro troviamo nelle pagine: quarant’anni e più di insegnamento raccolti in decine di fogli sparsi un po’ ovunque, schemi per lezioni, sottolineature, confronti, domande infinite fino ad amarla sempre di più la parola, scavando nella sua storia. Tanto da fare innamorare anche i lettori: questo è uno degli intenti del professore. È forse difficile, durante il breve tempo di lettura del libro, riuscire a gestire tantissime conoscenze, di letteratura, mitologia, linguistica. Un libro da leggere con calma. “L’amore occupa i capillari molto lento” cantava Ruggeri. Sicuramente è molto diverso dal precedente ‘Tra il silenzio e il tuono’, pubblicato solo un anno fa. In qualche modo potrebbe ricordarci il libro uscito nel 2005, sempre per Einaudi, che aveva per titolo ‘Le parole non le portano le cicogne’, anche se allora Vecchioni raccontava una storia. ‘La parola’ è il titolo di una canzone di Vecchioni uscita nell’album del 2018 ‘L’infinito’. Apre il nuovo libro e vale la pena di riportarne qualche strofa: “Tu sei dentro me – e mi canti e mi culli – mi addormenti e mi svegli – camminando sui fogli”. O ancora: “Dai bagliori di scena – dai versi di un poema – ridotta a questa sorte – parola amore mio – chi t’ha ferita a morte?”.
Potremmo dividere il volume in quattro parti: la prima è linguistica, ma con l’intento di non annoiare, almeno nelle intenzioni dichiarate dall’autore; la seconda sostanzialmente etimologica, lezioni abbozzate a mano e poi riscritte alla fine del libro; una terza sul ruolo della parola nel gioco, negli enigmi, negli indovinelli e nel teatro. L’ultima parte, quella dedicata alla poesia, mi ha ricordato un episodio recente. Ero andato ad ascoltare un amico poeta che leggeva alcune sue poesie di fronte a un folto pubblico. Nel momento dell’aperitivo che concludeva la serata, una signora si avvicina e rivolge al poeta queste parole: “Io ho studiato parecchio e mi ritengo una persona istruita, come pure intelligente, ma delle sue poesie non ho capito niente!”. Ecco, l’ultima parte del libro può dare una spiegazione a questa osservazione. Vecchioni scrive: “Il linguaggio poetico, specialmente dall’Ottocento in poi, ma spesso anche prima, non riguarda tanto il comprendere quanto il sentire”. E anche quando capiamo, la poesia nasconde qualcosa di più profondo che sta a noi sentire, ha più a che fare con l’emozione che con il senso.” Chiarito questo, avvia un percorso poetico che possiamo ritrovare in gran parte nelle sue canzoni, da Leopardi a Penna, Rimbaud, Montale, Pessoa, Dickinson, fino a Szymborska e l’amore: “La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? – Ascolta – come mi batte forte il tuo cuore”. Anche questo fa la poesia.