Incontriamo Katerina Gordeeva, voce critica russa e autrice di ‘Oltre la soglia del dolore. 24 voci ucraine e russe, per chi sa ascoltare’
Katerina Gordeeva, giornalista indipendente russa fra le più conosciute, documentarista e scrittrice, è stata inclusa nella lista, sempre più lunga, degli “agenti stranieri” (i nuovi nemici del popolo nella Russia putiniana) poco dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina. Nello stesso anno, in Occidente, è stata insignita del Premio giornalistico Anna Politkovskaya.
Gordeeva, nata nel 1977 a Rostov sul Don, nella Russia meridionale, si è trasferita a Riga con il marito e i quattro figli già nel 2014, poco dopo l’entrata dei primi carri armati russi a Donetsk e l’annessione russa della Crimea. Oggi prosegue e diffonde la sua attività di giornalista e documentarista attraverso il suo seguitissimo canale Youtube ‘Dillo a Gordeeva (www.youtube.com/c/skazhigordeevoy/videos), il quale conta quasi due milioni di iscritti, proponendo uno sguardo alternativo rispetto alla propaganda di Mosca.
È interessante osservare come il destino di molte famiglie russe si ripeta senza sosta nel corso dei secoli. Il bis-bis nonno (da parte di madre) di Katerina Gordeeva, il barone Nikolay Kirschbaum, vice presidente della Banca russa per il commercio estero nella Russia zarista, mecenate a Nizhny Novgorod (oggi capoluogo dell’omonima regione e del circondario federale del Volga) e proprietario di una grossa tenuta proprio a Nizhny, che in parte affittò al celebre scrittore Maksim Gor’kij (sostenitore di Lenin e della Rivoluzione e divenuto poi il padre del cosiddetto Realismo socialista), lasciò anch’esso la Russia in seguito ai moti rivoluzionari. Kirschbaum è morto a Nizza nel 1932, dove, a detta della leggenda familiare, abbia nascosto un tesoretto nel caso parte della famiglia avesse voluto fuggire l’URSS staliniana.
Katerina Gordeeva ha detto che nessun deposito bancario è mai stato ritrovato, eppure, in comune con il bis-bis nonno condivide il destino di aver dovuto abbandonare la propria patria per motivi politici.
La Russia muta nel corso dei secoli, cambia forma e statuti, ma il concetto di regime non cambia mai. Durante la diciannovesima edizione del Festival internazionale di letteratura Chiasso Letteraria Katerina Gordeeva lo ha spiegato ancora una volta, presentando il suo ultimo libro intitolato ‘Oltre la soglia del dolore. 24 voci ucraine e russe, per chi sa ascoltare’ (Ed. 21lettere), il quale non lascia spazio a nessun tipo di interpretazione riguardo al nostro presente. Dolorosissimo, ma necessario, il libro di Katerina Gordeeva va assolutamente letto per decifrare eventi che superano ogni immaginazione e che concernono tutti noi, non solo i territori contesi del Donbass.
Con lei abbiamo parlato di Russia, quella di ieri e quella di oggi, al fine di comprendere un paese che per molti versi resta impenetrabile e oscuro.
Dopo più di tre anni di guerra quale è la sua opinione riguardo alla società russa attuale? C’è chi sostiene che il degrado morale sia oramai endemico in Russia e che una “nuova élite”, composta da ex soldati tornati dal fronte, si stia consolidando. Gli ex combattenti ottengono molti benefici statali e accedono a posti di lavoro di prestigio all’interno del governo con il solo merito di aver partecipato all’operazione militare speciale.
Non sono in grado rispondere a questa domanda. Non sono pronta a parlare della società russa in questo momento, perché si tratta di un tema molto complesso e profondo. Generalizzare è impossibile. Inoltre, il termine “degrado” è troppo forte per associarlo a tutta la società.
A suo avviso, da un punto vista puramente russo, si poteva prevendere l’invasione dell’Ucraina, soprattutto nella dimensione che osserviamo dal 2022?
Per quanto mi riguarda l’invasione dell’Ucraina non rimonta al 2022, ma al 2014, quando i carri armati russi sono entrati a Donetsk. Donetsk si trova a poco più di 100 chilometri da Rostov sul Don, la mia città natale. Ho visto con i miei occhi quei carri armati. Di lì a poco ho preso la decisione di lasciare la Russia. Ciò che vediamo oggi è un logico sviluppo di quegli eventi.
Il principio fondante è quello della relazione abusante. Se l’abusato non reagisce, colui che abusa continuerà a farlo, fino a uccidere la vittima. Quando il male non viene punito inevitabilmente cresce. Il fatto che all’epoca ci fosse poco eco nel mondo riguardo a quanto stava accadendo significa semplicemente che altri interessi erano più importanti: denaro, risorse, produzione di armi. La guerra arricchisce chiunque vi partecipi. Per la politica la vita umana è semplicemente una risorsa come lo sono tante altre, gas, petrolio, ecc.
Da un punto di vista russo è necessario capire il contesto: negli ultimi cento anni la Russia ha vissuto in estrema povertà, in un mostruoso contesto di non libertà e solo recentemente la popolazione ha avuto la possibilità di godere di qualche miglioramento, rallegrandosi per un appartamento di proprietà, per un frigorifero pieno e per un lavoro più o meno stabile.
Il valore di questo tipo di comfort si è dimostrato più importante del valore della libertà o di quello della vita altrui. In nome della stabilità i russi si sono detti pronti a pagare un prezzo altissimo, prezzo che comprende la vita dei loro figli. Così è fatto l’uomo che per più di un secolo è stato educato al fatto che l’espressione della propria opinione possa condurre alla prigionia o che per ottenere un paio di jeans sia necessario fare molti sacrifici. Il risultato è un essere umano a cui è stato insegnato a tacere, a non opporsi. Grazie a questo comportamento in molti hanno potuto conservare il proprio lavoro, la propria attività imprenditoriale, ecc. Conosco delle persone nel sud della Russia che da vent’anni aspettano che i loro vigneti crescano abbastanza per iniziare la produzione vinicola. Cosa potevano fare nel 2022?
Avevano due scelte: abbandonare tutto, sapendo che comunque non avrebbero fermato la guerra e non avrebbero salvato nessun ucraino, o, peggio ancora, manifestare la loro disapprovazione, sapendo di rischiare il carcere e la confisca dei vigneti da parte del governo, oppure scegliere il silenzio e andarsene dalla Russia, coscienti che l’esilio sarebbe potuto durare decenni, in un luogo che non è casa, dove nessuno ti aspetta e dove è necessario ricominciare tutto da zero. Si tratta di una scelta difficile.”
In un’intervista che lei concesse al celebre giornalista e blogger russo Yury Dud qualche anno fa spiegava di come la “creazione dell’uomo sovietico” avesse tutt’oggi un impatto fondamentale nel descrivere la società russa, nonostante siano passati oramai più di trent’anni dalla Perestrojka. Può spiegarcelo meglio?
In Occidente la Perestrojka è percepita come un momento di rivoluzione e di liberazione, mentre per i russi non è così. Non abbiamo mai combattuto per ottenere la Perestrojka. Essa si è concretizzata per mano di Michail Gorbačëv (n.d.r. Penultimo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, fu propugnatore dei processi di riforma legati alla Perestrojka e alla Glasnost), il quale ha sorpassato, intellettualmente e grazie a qualità sue, il proprio tempo. Gorbačëv desiderava fortemente che il paese cambiasse.
La Perestrojka è stata una rivoluzione dall’alto, dettata dal Partito comunista, non dalle persone. Se vogliamo creare un parallelismo si può affermare che la stessa cosa avvenne in occasione dell’abolizione della servitù della gleba nella Russia zarista (n.d.r. il 19 febbraio 1861 l’imperatore Alessandro II firmò un manifesto sull’abolizione della servitù della gleba. Per questo ricevette il soprannome di “Liberatore”. I contadini ottennero il diritto di riscattare terreni).
I russi non sapevano cosa farsene della Perestrojka, di una rivoluzione che nessuno aveva mai chiesto. Ed è questo uno dei tanti motivi per cui sono convinta che “l’uomo sovietico” continui a vivere all’interno di tutti i russi, anche in quelle nuove generazioni che l’Unione Sovietica non l’hanno mai vista, né vissuta. Sento spesso persone molto giovani parlare dell’Unione Sovietica con connotazione positiva, anche se a quel tempo non erano ancora nati. Questo accade perché i loro genitori hanno sofferto moltissimo durante gli anni ‘90, caratterizzati da miseria, disordine e violenza cittadina. In Russia, il valore della libertà non è mai stato comparabile al valore di un paio di jeans. I jeans valgono di più, un appartamento di proprietà, quando si è vissuto tutta la vita in una kommunalka (n.d.r. appartamento comunitario tipico dell’Unione Sovietica in cui diverse persone o famiglie non imparentate vivono in stanze isolate ma condividono aree comuni come cucina, doccia e servizi igienici), vale di più.”
È noto che lei sia una grande appassionata della vita e delle opere della famosa poetessa Marina Cvetaeva (n.d.r. 1892-1941, fra i più importanti rappresentanti della poesia russa del ventesimo secolo). Cosa ci insegna la vita della Cvetaeva sulla Russia e sull’oppressione dei regimi totalitari?
Ci insegna a non tornare indietro (n.d.r. Marina Cvetaeva e il marito erano malvisti dal potere sovietico e per questo motivo emigrarono in Europa nel 1922 (Praga, Berlino e Parigi), ma tornarono volontariamente in URSS alla fine degli anni ‘30. Il marito fu fucilato, la figlia inviata in un campo di lavoro e la poetessa si suicidò nel ‘41 a Elabuga, nella Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Tatara). Con il suo ritorno Marina Cvetaeva ha pagato un prezzo troppo elevato, la vita della sua famiglia in primis.
Io me ne sono andata non perché volevo dimostrare qualcosa a qualcuno, ma perché volevo salvare i miei figli. Il mio bisnonno è stato fucilato durante la repressione staliniana poiché considerato nemico del popolo e i suoi resti, così come quelli di sua moglie, si trovano in quello che rimane del poligono di Butovo e delle sue fosse comuni (n.d.r. poligono di esecuzione durante gli anni delle purghe 1937-1953, a 25 chilometri a sud del centro di Mosca. Oggi luogo della memoria riconosciuto dallo stato).
Il padre di mia nonna è stato fucilato a Mykolaïv, sempre durante le purghe. La condanna è stata firmata personalmente da Stalin, mentre la mia bisnonna ha passato vent’anni in un gulag. Nel 2014, per me, è stato chiaro verso cosa ci stavamo dirigendo e “geneticamente” ho compreso che si hanno due sole possibilità in questi casi: rimanere e sacrificare sé stessi oppure andarsene. Io sono una minoranza in questo senso. Quelli che per me sono valori irrinunciabili non lo sono per la maggioranza dei russi, ma questo non significa che loro siano peggio di me. Non tornerò mai più indietro. Non riesco a immaginarmi e a immaginare i miei figli vivere in Russia.