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L’IA tra sfide reali e paure esagerate

Intervista alla professoressa Barbara Caputo, vincitrice del Grand Prix Möbius per l’intelligenza artificiale al servizio della società

Nella foto: i nuovi supercomputer del Centro svizzero di calcolo scientifico
(ti-press)
19 febbraio 2025
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“Psychologist Shows Embryo of Computer Designed to Read and Grow Wiser”, ovvero “Psicologo mostra il progetto iniziale di un computer progettato per leggere e diventare più saggio”. È con questa notizia, pubblicata dal ‘New York Times’ nel luglio del 1958, che la professoressa Barbara Caputo ha iniziato la sua conferenza, lunedì al Campus Usi-Supsi di Lugano, seguita dalla consegna del Grand Prix Möbius per l’intelligenza artificiale al servizio della società.

Quel ritaglio di giornale parlava del Percettrone sviluppato da Frank Rosenblatt, un dispositivo tecnicamente molto lontano dai moderni modelli linguistici di grandi dimensioni (gli Llm come il popolare ChatGPT), ma con già le idee in chiaro: lo stesso Rosenblatt lo ha infatti presentato come in grado di pensare “come il cervello umano”. Non è per semplice curiosità storica, che Caputo è partita da qui: che cosa è cambiato dal Percettrone a ChatGPT? “Dati, hardware e algoritmi”. È intorno a questi tre elementi che dovremmo ragionare quando parliamo di intelligenza artificiale: i dati sono il materiale grezzo di partenza con cui questi sistemi vengono addestrati, con tutti i problemi di privacy e di proprietà intellettuale che è facile immaginare; l’hardware, il ferro al quale si fa scaramanticamente riferimento nel titolo della serata (“Tocchiamo ferro”), ovvero i grandi centri di calcolo necessari a far funzionare questi sistemi, consumando notevoli quantità di energia e di acqua per il raffreddamento; e infine gli algoritmi, potenti ma anche inefficienti con il loro approccio basato “sulla forza bruta” di calcolo.

Professoressa Caputo, lei che lavora nel settore da 25 anni come vive l’improvvisa popolarità dell’Intelligenza artificiale, in particolare dopo l’avvento di ChatGPT?

Da una parte è bellissimo: il tempo tra il momento in cui tu immagini qualcosa a un livello molto teorico al momento in cui diventa un prodotto si è accorciato moltissimo ed è meraviglioso poter vedere tutto questo. Ed è bellissimo anche vedere così tanti ragazzi di talento attratti da questo settore. Credo che oggi qualsiasi ragazzo o ragazza con un talento nelle discipline Stem (science, technology, engineering and mathematics, ndr) alla domanda su cosa vorrà fare da grande risponderà “l’intelligenza artificiale”. Questo vuol dire non solo avere persone brillanti e capaci, ma anche ragazze e ragazzi che hanno voglia di inventare il futuro.

Poi c’è la possibilità di trovare con molta più facilità finanziamenti per la propria ricerca: io sono a un punto della mia carriera in cui ho il privilegio di poter guardare a questo argomento dal punto di vista del professore universitario che collabora con grandi aziende e cerca di far entrare questa tecnologia. Da due anni, inoltre, con alcuni miei ex studenti di dottorato ho avviato una startup ed è un’avventura bellissima, trovare un’idea e non farla diventare un articolo accademico ma un prodotto.

La popolarità dell’IA non riguarda solo l’ambito accademico e professionale.

No e infatti un’altra esperienza estremamente interessante è sentire parlare così tanto in pubblico di qualcosa che si conosce molto bene. Si tocca con mano come anche su altri argomenti probabilmente mi raccontano delle cose che non hanno completamente senso e io mi bevo tutto perché sono ignorante, mentre invece qui capisco di cosa si parla e dico “ma questo che sta a dire?”.

Un po’ di anni fa ho portato mio figlio al Salone del Libro di Torino al suo primo incontro con l’autore, dove l’autore era Geronimo Stilton: c’era il pupazzone, abbiamo comprato l’ultimo libro di Geronimo Stilton che l’ha autografato e poi la sera lo abbiamo letto insieme. Come in tutti i libri di avventure per bambini che si rispettano, ci sono i buoni e ci sono i cattivi e il cattivo era un’intelligenza artificiale! Così ho dovuto spiegare a mio figlio che “mamma non fa queste cose, non è così!”.

Però questa paura non c’è solo nelle avventure per ragazzi. Anzi, i timori per una Intelligenza artificiale generale, in grado di superare le capacità cognitive umane, sono stati espressi dai Ceo delle grandi aziende attive nei settori.

Su quelle dichiarazioni, osservo sommessamente che quegli stessi Ceo dopo aver lanciato l’allarme dicono “per gestire questa cosa datemi ancora più soldi”. E allora da semplice ragazza di campagna mi dico ma come, ti sei preso una montagna di soldi, hai fatto tutta questa cosa, ti stai accorgendo che questa cosa potrebbe diventare un mostro e la tua soluzione è “datemi ancora più soldi”? Perché per me la soluzione, se davvero c’è questo pericolo, sarebbe fermarsi, ma visto che non si fermano mai mi chiedo: “Non potrebbe essere un’operazione di marketing?”.

Che cos’è, infatti, questa Artificial General Intelligence? La capacità di risolvere qualsiasi quiz? Di rispondere a qualsiasi domanda? L’anno scorso Elon Musk ha presentato, con i suoi soliti toni reboanti, Optimus, un robot umanoide in grado di rivoluzionare il lavoro, di cambiare la storia eccetera. Dopo di che si è scoperto che, come nella grande tradizione delle demo in cui all’ultimo minuto devi inventarti qualcosa perché altrimenti ti tolgono i fondi, c’era una persona che controllava il robot. La cosiddetta intelligenza embodied, cioè l’intelligenza che entra in ciclo percezione-azione come facciamo ad esempio quando prendiamo in mano qualcosa, è ancora un problema. Non abbiamo un robot in grado di fare le cose che fanno un cane, un gatto o un bambino di quattro anni. Però abbiamo dei programmi al calcolatore che passano i test d’ingresso delle università più prestigiose del mondo: la chiamiamo intelligenza o semplicemente abbiamo progettato dei sistemi scolastici per cui chi impara a memoria tutte le possibili righe del libro, tutte le possibili risposte a tutte le possibili domande concepibili e immaginabili supera gli esami con risultati brillanti?

L’IA è ormai parte della geopolitica. Trump ha annunciato, con il progetto Stargate, investimenti per miliardi di dollari; la Cina ha risposto pochi giorni dopo con DeepSeek, un modello potente ma apparentemente economico.

Loro l’hanno raccontata come “abbiamo trovato 20 euro per strada e abbiamo fatto qualcosa che vi ha battuto”, poi in realtà le cose non stavano in questo modo, ma rientrava nella retorica del “voi siete la forza bruta, noi siamo l’intelligenza e l’astuzia”.

Quello che secondo me potrebbe essere davvero pericoloso è il fatto che la comprensione tecnica di questa tecnologia diventa appannaggio esclusivo di pochi. Se è vero che l’intelligenza artificiale è la nuova elettricità, noi accetteremmo di vivere in una città dove non c’è neanche un elettricista? Perché questa è la situazione in cui si troveranno i paesi che non avranno un nucleo operativo di esperti di questa tecnologia – non dico in grado di creare un nuovo ChatGPT o un nuovo DeepSeek, ma quantomeno di avere persone in grado di comprendere quello che già esiste. Così se un paese decide di adottare un algoritmo creato altrove, questi esperti sono in grado di analizzare quel software e garantire che è sicuro, che non ci sono trabocchetti che permettono ad esempio al fornitore di bloccare la rete di telecomunicazioni.