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Storia di un poeta e della sua follia

‘Ricordi di suoni e di luci’ di Renato Martinoni, fresco di pubblicazione, è un'originale e coinvolgente storia romanzata di Dino Campana

L’autore
(Ti-Press)
6 febbraio 2025
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‘Storia di un poeta e della sua follia’ è il sottotitolo scelto da Renato Martinoni per il suo recentissimo romanzo (2025, Piero Manni). Sulla copertina una splendida immagine tratta da un dipinto del pittore inglese John William Waterhouse che ritrae una giovane donna sensuale ed elegante, avvolta in un abito gonfiato dal vento che lascia intravedere solo un braccio scoperto, un po’ dei capelli e il profilo del volto. Presenza femminile che ritroviamo anche nel passaggio sul retro di copertina del libro: “La giovane donna non toglie il velo che le copre il volto neanche quando rimane sola. (…) Poi legge, con la sua bella voce, le parole scolpite sulla lastra: ‘Dino Campana/ poeta /1885-1932’”. “Dino Campana”, sussurra commossa. “Poeta”. “Poeta vero”, aggiunge.

La Chimera

Potrei azzardarmi a dire che quello della presenza della figura femminile è la spina dorsale dell’intero romanzo, anche se il solo vero grande amore per Campana è la Chimera, la poesia. Il libro è diviso in quattro parti. Nella prima, che si intitola ‘La fata verde’, Martinoni presenta il protagonista chiamandolo “il poeta”. Siamo a Torino, è il 1915, venti di guerra soffiano nel cielo di cristallo. Seguendo progressivamente gli eventi della narrazione, nella seconda parte, dal titolo ‘La fata bianca’ diventa “il vagabondo”. Nel successivo, ‘La fata rossa’, “lo strambo”, nell’ultimo, ‘La fata nera’, “il matto”. Ben più spietati sono i giudizi della gente quando lo incontra nei luoghi del suo vagabondare: “spostato”, “povero fannullone”, “delinquente”, “pericolo pubblico”, “pazzo morale”, “scemo”, “parassita”, e anche peggio. Poco tenero nei giudizi anche il poeta: a rari momenti di dolcezza alterna furie improvvise, disprezzando un po’ tutti: “sacchi di pus” e “sciacalli”, come minimo. E anche le donne, desiderate e possedute in un primo momento, finiscono per essere vittime dei repentini sbalzi d’umore; lascio ai lettori scoprire come finiscono per essere chiamate. Presenze comunque costanti, a partire da quella della madre per cui il poeta nutre un sentimento astioso. Sarebbe allora facile fare dello psicologismo e intuire le origini dello sconforto che lo farà diventare matto. O cercare qualche tara ereditaria. Ma Martinoni ci invita a seguirlo in un altro ragionamento che vedremo più avanti.

L’intelligenza del cuore

Scrive l’autore del romanzo, in una nota alla fine del volume, che nemmeno lui può dire dove cominci l’invenzione (o dove l’invenzione cessi per fare posto alla storia) e che è inutile cercare nella realtà i personaggi e i fatti di questa narrazione. E non lo faccio quindi nemmeno io. Chi conosce l’opera e la biografia di Campana, tuttavia, non potrà fare a meno di individuare agganci evidenti e vere e proprie citazioni, anche se il libro, scritto in modo limpido e accattivante, si può leggere benissimo ignorandoli completamente. E arrivare alla fine della lettura, che acquista progressivamente ritmo e intensità, con il rammarico che la storia sia terminata, perché non c’è storia che non finisca. Consola allora un passaggio tratto dalla penultima pagina: “Nell’attesa che la natura, e con essa la vita degli uomini, rinasca un’altra volta. Come sempre, o quasi, è capitato. Anche dopo le tempeste che si accaniscono sul mondo”.

Certo, bisogna ricordare che Martinoni ha curato per Einaudi, con un’ampia introduzione, i ‘Canti Orfici’ di Campana. Pubblicato nel 2003, il libro è ancora oggi un punto di riferimento nello studio della vita e dell’opera del poeta, con continuo successo di vendite. Ma le citazioni che l’autore sceglie per introdurre il suo romanzo ci rivelano fin dall’inizio l’intenzione di scrivere qualcosa di molto diverso: si tratta di raccontare una storia attraverso l’intelligenza del cuore. Oltre a due versi di Campana: “ricordi d’amori lontani, /ricordi di suoni e di luci” da cui nasce il titolo del volume, troviamo un passaggio tratto da una canzone dei Pink Floyd del 1979 che traduco in italiano: “Il bambino è cresciuto/ il sogno se n’è andato”. Seguono alcune parole di una canzone dei Jethro Tull del 1969: “Non è facile cantare canzoni tristi”. Sulla pagina successiva una dedica al nipotino, seguita ancora da versi di Campana: “A Oceano, / innumeri dal mare/ Parvero i bianchi sogni (…) / e il mare e il cielo è d’oro”.

La fine di un sogno

Qual è allora il dolore devastante che sconquassa il poeta? Vede la sua poesia incompresa, derisa, incapace di trovare una direzione nella vita, così matura la coscienza della fine di un sogno: non potrà più essere poeta. Martinoni invita il lettore a pensare che all’origine della sofferenza psichica ci possa essere anche l’incapacità di vivere una vita all’altezza della grande sensibilità, di fare coincidere la realtà con il modo di percepirla. La narrazione è spesso arricchita di pensieri che, pure nei vari momenti di follia del protagonista, sembrano spingerci verso questo tipo di interpretazione. Ci sono persone forse troppo belle per quello che è la vita. “Chissà che l’eroe di questa storia che oramai è solo di follia non sia diventato un poco saggio?”, si chiede verso la fine del libro l’autore. O forse già non lo era quando inorridiva di fronte all’inutilità della guerra e chiedeva alla fata rossa: “Vale la pena di essere trucidati come le bestie?” “Per chi?” “Per che cosa”?

Siamo partiti da Torino; Martinoni percorre con chi legge i luoghi dove è passato l’irrequieto che sono i capitoli del romanzo: Losanna, Ginevra, Berna, Basilea, Bologna, Livorno, Marina di Pisa, Genova, Novara, Firenze, per esempio, fino al lungo ricovero in una clinica psichiatrica situata su una collina vicino a Firenze. Qui possiamo concludere il viaggio, stimolando la curiosità e la fantasia dei lettori con una frase che lo squilibrato scrive su un muro del dormitorio durante il ricovero: “Mefisto, vedi là sola e lontana una bambina bella pallida”. A chi gli chiede spiegazioni, non risponde. “Chi mai sarà la bambina? Un amore di gioventù, e che c’entra Mefistofele? È forse un accenno al bello e al brutto della vita? All’infanzia e alla vecchiaia? Alla salute e alla malattia? Al paradiso e all’inferno?”, si chiede Martinoni alla fine del percorso. Nessuna risposta. Sembrano però non avere risposta anche le domande più grandi che tutti ci poniamo e che il romanzo mette in luce attraverso poesia e follia, dal confine più incerto di quanto possa sembrare. “Tutto è vano”. Tutto è triste”, “Ma non sono infelice”, afferma il poeta nella rassegnazione del manicomio. E la frase giovanile “Chi sale sulle montagne, ride di tutti i drammi” sulla collina fiorentina diventa tristemente: “Chi vive sulle colline, ride di tutti i drammi”.