‘La salita’ dello svizzero Ludwig Hohl in una nuova edizione, per un autore ritenuto un maestro da scrittori come Canetti, Frisch, Dürrenmatt e Handke
Fra le molte preziose riflessioni sulla letteratura che ci ha lasciato Jorge Luis Borges, ve n’è una legata al fatto che “i grandi scrittori sono quelli che creano non solo le loro opere, ma anche i propri precursori”. Un principio ben applicato da Gianfranco Contini quando si trattò, ad esempio, di individuare le ascendenze letterarie di Carlo Emilio Gadda, che si rivelò capace di restituire rilievo e importanza ad autori di fine Ottocento/inizio Novecento che fra Lombardia e Piemonte, con uno stile eclettico e linguisticamente onnivoro, avevano dato vita alla cosiddetta ‘Scapigliatura’.
È stato, insomma, grazie a Gadda e agli studi a lui dedicati che si è tornati a chinarsi su autori ritenuti ‘minori’ e a rileggerli in una chiave rinnovata. Si pensi, fra gli altri, al vercellese Achille Giovanni Cagna, autore di un libro a suo modo programmatico qual è stato ‘Alpinisti ciabattoni’ (1888) con la descrizione per certi versi quasi parodistica di una villeggiatura in montagna di cittadini borghesi che si trasforma in una serie di disavventure vissute dentro un mondo, quello alpino, che si crede di poter facilmente addomesticare e che riduce invece i protagonisti a delle tragicomiche e ridicole figure di dilettanti. Il libro di Cagna non è solo ben iscritto nella linea rossa della ‘funzione Gadda’ di cui si diceva, ma per altri versi rappresenta anche tematicamente un significativo esempio di un genere, quello della narrativa di montagna, che ha una storia importante non solo in Italia.
Se si pensa al rapporto con le Alpi, i suoi primi importanti esempi, sin dal Settecento, sono di autori svizzeri, con Albrecht von Haller, e poi a seguire con Rodolphe Töpffer fino a giungere ad un ‘padre fondatore’ della moderna letteratura svizzera di lingua francese come Charles-Ferdinand Ramuz con il suo celebre romanzo ‘La grande peur dans la montagne’ (1926). In quello stesso anno, per curiosa coincidenza o congiunzione astrale, un giovane e ribelle Ludwig Hohl, nato a Netstal (Glarona) nel 1904, fuggito da scuola e famiglia e approdato in Francia (prima a Parigi poi a Marsiglia) scrive un libro che inizialmente vorrebbe dar conto di quella che è una sua passione, l’alpinismo. Lo intitola ‘Bergfahrt’ e ci lavora, di cesello, con un accanimento che sfiora l’ossessione, per ben 49 anni, prima di decidersi di farlo uscire, nel 1975 accanto e dopo la pubblicazione di alcune raccolte di ‘Note’ scritte negli anni di autoisolamento in Olanda e poi a Ginevra.
La sua dedizione alla scrittura è pressoché assoluta e vissuta per anni in uno scantinato ginevrino dove Hohl aveva tirato, da una parete all’altra, dei fili sui quali attaccava, con mollette da bucato, foglietti di varia dimensione su cui aveva scritto i suoi ‘pensieri’, le riflessioni spesso aforistiche su cui lavorava, incessantemente, fra un bicchiere e l’altro, sino allo sfinimento. Una vita marginale per scelta o per necessità, segnata comunque (chissà come) da cinque matrimoni (presto finiti) e da significative amicizie letterarie, prime fra tutte quelle con Frisch e Dürrenmatt, suoi appassionati e quasi ‘devoti’ lettori, specie de ‘La salita’, che con questo titolo uscirà in versione italiana nel 1988 da Casagrande a Lugano ed è ora tornato in libreria grazie a Sellerio con una bella introduzione dello scrittore Davide Longo.
È proprio la ‘rilettura’ di Longo a proporre alcuni dei temi di fondo (e dei ‘trabocchetti’) di un libro che parrebbe (anche nella sua natura esile e sintetica) un semplice racconto di una scalata da parte di due amici dal carattere e dalla natura diversi: Ull è ambizioso e volitivo: il suo scopo è quello di raggiungere la vetta a ogni costo; Johann è riflessivo e malinconico e come tale cauto e ragionevole, attento ai limiti che la natura della montagna impone loro. Con lo scorrere delle pagine però, accanto al racconto (dettagliato e precisissimo) del percorso ascensionale che vedrà i due amici separarsi, il lettore troverà tutta una serie di segnali a indicargli che, in fondo, i due non sono necessariamente due, potrebbero essere anche due facce di una complessa relazione con il mondo, specchio di un viaggio che diventa interiore, per misurare i limiti che ognuno affronta quotidianamente nel corso del proprio ‘viaggio esistenziale’. E così il libro diventa una meditazione sulla precarietà e la finitezza umana, sul significato della sua ‘presenza’ dentro un contesto, imponente e opprimente, qual è quello della montagna quando è notte, quando le candele nel rifugio, fra spifferi gelidi, illuminano le ombre. Sono temi forti e cruciali, che in forma e contesto differenti, possiamo rinvenire in altri e più recenti volumi di narrativa di montagna.
Del resto, quello alpino e prealpino, è un mondo di cui hanno dato conto non pochi autori contemporanei svizzeri o svizzero italiani, come Mario Casella (alpinista provetto e molto altro) o, ancora, Luca Saltini con il recente romanzo ‘Sarà la montagna’, pubblicato da Neri Pozza. Siamo, per dirla forse un po’ troppo grossolanamente, dalle parti di Paolo Cognetti e del suo grande successo, da noi come in Italia, con il libro ‘Le otto montagne’ (Einaudi, 2016). Proprio Cognetti ci consegna parole illuminanti sul vivere la montagna in un volumetto uscito recentemente a Cevio, da Key edizioni, per iniziativa di Martino Giovanettina. Già il titolo dice molto: ‘Diventare ciò che siamo’ riconduce infatti a un rapporto che si trasforma ben presto in ‘introspezione’, un viaggio nel profondo, dentro una fatale e naturale condizione di solitudine. Quella stessa evocata da ‘La salita’, quella in cui viveva Hohl attaccando i suoi pensieri al filo del bucato? Forse sì, anche quella, in una ipotetica, ideale linea rossa della narrativa di montagna in cui forse, Ludwig Hohl, inconsapevolmente, è diventato anche un precursore di Paolo Cognetti. E non solo.