Il grande fotografo è morto all'età di 82 anni. Dagli archivi, le parole di chi credeva che la fotografia fosse ‘più reale della realtà’
Il papà Fedele fotografò il Duce e Claretta Petacci appesi per i piedi in Piazzale Loreto a Milano. Prima ancora, immortalò lo stesso Duce intento a far pipì e vendette la foto in Inghilterra. Ma il Duce lo graziò, dopo un incontro a palazzo che, raccontato oggi dal figlio, pare un gesto di rispetto verso un uomo che del rispetto del Duce non sapeva che farsene, impegnato com’era a combattere la censura fascista nei confronti della fotografia. Quello di papà Fedele è uno dei passaggi delle ultime interviste a Oliviero Toscani, per la precisione quella di Corrado Formigli per Piazzapulita, e chiama in causa ovvietà come i cromosomi di famiglia. Eppure le figure del racconto paiono sovrapponibili.
Il grande fotografo, morto all’età di 82 anni a Cecina, dove era ricoverato da venerdì scorso, già si era raccontato mesi prima a Luca Telese, sempre su La7, per uno di quei momenti pubblici nel quale il mondo si accorge improvvisamente che il grande di turno è alla fine. Col volto scavato e la voce flebile, ma sempre a tempo coi concetti, a entrambi gli interlocutori Toscani parlò della sua morte come si parla della vita, dicendo di passare le giornate leggendo, “guardando Sinner che gioca a tennis, che mi dà felicità”, vedendo in lui “passione, impegno e serietà di essere quello che è”. Il tennista italiano lo avrebbe poi salutato via social. Sempre in quell’occasione Toscani esprimeva il desiderio di andare a vedere ‘Fotografia e provocazione’, la mostra dedicatagli dal Museum für Gestaltung di Zurigo, chiusasi il 5 gennaio scorso. “Vado a vedere la mostra e poi rimango lì, col mio amico Marco Cappato” disse, l’amico che da sempre in Italia si batte per morti dignitose. “Tutti pensano all’eutanasia e nel mio caso, se proprio non ci fosse speranza, è logico pensarci, non vorrei continuare a vivere così. E poi ho vissuto abbastanza, sono stato molto fortunato”.
Toscani, a Zurigo, ci era stato in settembre, in sedia a rotelle. Della malattia, rara e incurabile, o “sgradevole” come descritta a La7, il fotografo aveva parlato al Corriere della Sera in un’altra intervista ancora, spiegando l’amiloidosi (malattia causata da depositi di proteine anomale, gli amiloidi, nei tessuti e negli organi di tutto il corpo), una malattia per la quale aveva fatto “da cavia”, sperando che la sperimentazione gli avrebbe allungato la vita di un paio d’anni, ma non è stato così.
Oliviero Toscani pubblica la sua prima foto a 14 anni sul Corriere, è il volto di Rachele Mussolini a Predappio per la tumulazione del dittatore. Dopo il diploma in fotografia a Zurigo, inizia a lavorare alla pubblicità, e dal cornetto Algida, sua prima campagna, passa ai caroselli pubblicitari della Facis. Il passo alle grandi riviste è breve, così come gli scatti per i grandi della moda. Per Benetton porta le problematiche sociali nella pubblicità, dall’uguaglianza razziale alla mafia, dall’omofobia all’Aids, dalla pace all’abolizione della pena capitale, il cosiddetto ‘shockvertising’ che gli procurerà più di una citazione in giudizio.
Dal 1991 in poi, nell’era Benetton, lancia la rivista ‘Colors’, apre il centro internazionale per le arti denominato ‘Fabrica’, dirige il mensile Talk Miramax a New York; dal 2000 rompe coi Benetton per via delle foto dei condannati a morte negli Stati Uniti che provocano ritorsioni contro la casa di moda. Nel 2004 apre La Sterpaia, centro di ricerca della comunicazione nel Pisano dove forma professionisti. Nel 2006 dirige Music Box, canale di Sky, nel 2007, per il marchio Nolita, ritrae i 31 chili di peso della modella francese Isabelle Caro malata di anoressia, facendosi accusare di sciacallaggio pubblicitario, ma mostrando l’entità del problema. Nel 2008, al Festival di Locarno, il documentario ‘Anorexia’ racconterà la storia di quella fotografia. Il 2007 è anche l’anno del progetto ‘Razza umana’, una mappatura delle caratteristiche somatiche, sociali e culturali del genere umano, dall’Italia a Israele, dalla Palestina al Guatemala.
Nel 2010 è Accademico d’onore delle Belle arti di Firenze, lo stesso accade a Brescia nel 2017. Dal 2018 al 2020 torna a lavorare per Benetton, rilanciando alcuni temi cari, prima di essere licenziato in seguito alle dichiarazioni sul Ponte Morandi (a ‘Un giorno da pecora’, in diretta radiofonica, commentando un’immagine che ritrae i Benetton, proprietari di una grossa quota azionaria della società Autostrade, disse “ma a chi interessa che caschi un ponte, smettiamola”). Condannato per diffamazione nei confronti di Matteo Salvini, cosa che deve aver preso come motivo d’orgoglio (“È disumano, io non gli farei curare nemmeno il mio orto”, dichiarò a La7 lo scorso anno), un paio di anni fa definì Chiara Ferragni “la fotografa più importante del momento”, spiegando che “usa la fotografia nel modo più moderno, non migliore” (specificando che “solo gli stupidi la seguono, infatti ne ha più di 22 milioni”).
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Nel 1995 con Luciano Benetton
Sono due le occasioni delle quali, del fotografo, c’è traccia nei nostri archivi. È lì che andiamo a rintracciare il Toscani pensiero, nelle interviste concesseci. Nell’ottobre del 2017, al m.a.x. museo di Chiasso che poco dista da Mendrisio, dove Toscani insegnò Analisi della comunicazione visiva nella locale Accademia di Architettura, di cui fu peraltro uno dei fondatori. Lì fu allestita ‘Immaginare’, la sua prima mostra antologica. “Come mai questa ritrosia alle antologiche?”, chiese il collega Ivo Silvestro; “Perché non sono ancora morto!”, rispose Toscani, scaricando tutte le responsabilità sulla curatrice della mostra e direttrice del museo Nicoletta Ossanna Cavadini, prima di regalare alcune definizioni di sé e del proprio lavoro: “Per me la fotografia è un mezzo, uno strumento per comunicare. Sono un autore”, disse, rivendicando l’applicabilità ai fotografi di un concetto che nel definire gli scrittori vien da sé. “Dici ‘fotografo’ e si pensa semplicemente all’azione di fare fotografie! Ma tutti sanno fare fotografie!”. Anche gli animali: “Se io prendo una macchina fotografica che scatta ogni secondo e la metto sulle orecchie di un asino che lascio correre per le strade di New York, alla sera troverò delle immagini fantastiche... ma chi è il fotografo? L’asino, che aveva la macchina sulla testa, o io che ho deciso di mettergliela sulle orecchie?”.
Toscani non amava farsi dare del pubblicitario (“Non so nemmeno come funziona la pubblicità, non se seguo i canoni”) e sul fatto che i suoi scatti, della pubblicità, ne avessero fatto la storia, rispose: “Tutto quello che passa attraverso un’immagine è pubblico, è pubblicità. Michelangelo dipingeva la Cappella Sistina per fare pubblicità alla chiesa…”. Quanto al ‘provocatorio’, una specie di secondo cognome, “si può provocare interesse, provocare amore, provocare pace, provocare bellezza. L’arte senza provocazione non serve a niente!”.
Quel giorno al m.a.x. museo, il fotografo rivide con piacere i suoi lavori di studente della Kunstgeverbeschule di Zurigo, felice della buona conservazione degli stessi e di riconoscersi ancora in quelle immagini: “Non sono nostalgico né feticista. Mi piace essere semplicemente un testimone del mio tempo: con quale macchina, con quale tecnica, non importa”.
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Al m.a.x. museo di Chiasso nel 2017
“Sogno raramente. Io non mi sfogo sognando, perciò lo devo fare da sveglio. Come diceva mia nonna, è inutile sognare le cose che non si possono realizzare, sennò si è frustrati tutta la vita. Meglio non sognare l’impossibile, meglio essere pratici”. Indietro di vent’anni, a quando ‘laRegione’ era seguita da ‘Ticino’ e Toscani pubblicò il pamphlet ‘Non sono obiettivo’, al quale le parole poco sopra sono legate, nel contrasto tra fantasia e manualità: “Una professione come quella del chirurgo ha tutto il mio rispetto, mentre per i manager nutro avversione: parlano, parlano, ma sanno fare ben poco. Bisogna sempre fidarsi di chi sa lavorare con le mani, indice di una sensibilità delle cose assente in chi non ne è capace. Purtroppo saper creare con le mani va sempre più perdendosi e non sarà un caso che il mondo sia sempre più in crisi”. E ancora: “L’artista è manovalanza. Io ho fotografato Picasso nel suo studio e mi sembrava un operaio mentre trafficava con i suoi pennelli: li lavava e poi li intingeva di nuovo nel colore. Per plasmare sono necessarie le mani: un lavoro guidato, naturalmente, dal cuore e dal cervello”.
A Luca Bernasconi, titolare dell’intervista, Toscani raccontò i dettagli del fondoschiena in blue jeans, foto scattata con budget praticamente nullo, e dell’aver suggerito lui al committente di chiamare i jeans “Jesus, come il musical Jesus Christ Superstar che andava in quel momento”. Raccontò dell’Osservatore Romano che fece ritirare i manifesti e di Pasolini che, al contrario, difese il suo lavoro: “Oltre a essere stato uno dei più grandi artisti italiani del Novecento, Pasolini fu anche un grande maestro: mi insegnò il coraggio di realizzare ciò che gli altri non volevano accettare, e soprattutto a non cercare sempre il consenso, ma a esprimere quello che la creatività ci spinge a fare. Eppure, il mondo è purtroppo pieno di gente che non vuole essere provocata. Io, invece, vorrei essere provocato costantemente, poiché ciò mi permette di guardare le cose da un punto di vista alternativo”.
Anche in quell’occasione, il fotografo fu interrogato sulla provocazione, sulla passione per le immagini ‘sconvolgenti’. “Io penso di aver proposto immagini edificanti. Il fatto di capire è edificante. Guardare la Pietà di Michelangelo non è forse edificante perché drammatica? Il giorno in cui riusciremo a guardare qualsiasi immagine, anche la più tremenda, e a non avere questa remora saremo forse veramente civili”. E anche in quell’occasione il dialogo finì per tornare ai giorni zurighesi, da cui l’elogio alla Svizzera contenuto anche nella pubblicazione fresca di stampa: “Trovo che la Svizzera sia un bel parco nazionale dell’umanità. Quando ci vengo, mi sembra di entrare in uno di quei parchi americani protetti (…) Al di là degli stereotipi anche divertenti, trovo sia un Paese di grande civiltà. Per fortuna, però, è piccola, perché è innegabile che abbia causato dei danni nel mondo dell’estetica: per esempio, ha influenzato troppo Walt Disney”.
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‘L’arte senza provocazione non serve a niente’