laR+ Musica

Sciostakovic sinfonico

Insignito dei più alti riconoscimenti al valore artistico che l’Unione sovietica attribuisce al genio dei suoi figli più docili, resta figura enigmatica

Alle celebrazioni per il bicentenario della morte di Bach, il 28 luglio 1950
(Wikipedia)
29 novembre 2024
|

Enfant terrible rappresentante la generazione di artisti che dalle premesse della Rivoluzione d’Ottobre svolsero le ragioni di un processo di liberazione estetica dallo spazio inattuale dell’eredità borghese, oggi ormai insignito di tutti i più alti riconoscimenti al valore artistico che l’Unione sovietica attribuisce al genio dei suoi figli più docili, Dimitri Sciostakovic rimane una figura enigmatica. Sia il discorso degli esegeti “occidentali” miranti a mettere in luce la forza dirompente delle sue prime partiture che le argomentazioni della critica ufficiale russa, la quale esalta gli alti contenuti ideali delle sue opere mature, rimangono affermazioni parziali ed insufficienti a tratteggiare un ritratto compiuto del musicista.

Innanzitutto occorre dire che una chiara iattura tra i due pretesi aspetti della sua opera non esiste e che, ignorando per ipotesi le vicende di politica culturale in cui venne coinvolto, potremmo seguire il curriculum di Sciostakovic senza avvertire forti contraccolpi di mutati principi estetici. Limitando le considerazioni ad esempio alla sua produzione sinfonica e pur ammettendo la convinta carica di anticonformismo nelle composizioni antecedenti la Quinta Sinfonia, non possiamo trattenerci dal notare la felice disponibilità del musicista ad appropriarsi delle vaste forme orchestrali in un quadro in partenza già compromesso in un dialogo con il passato romantico, problematico questo è vero, e tuttavia estraneo all’acquisizione di una paralizzante posizione di crisi messa a nudo dagli esponenti di un’avanguardia culturale (Schönberg, Stravinsky, ecc.) i quali per ragioni cronologiche oltretutto potevano già essere suoi maestri.

Musicista vate

Se di avanguardia si può parlare nel suo caso ciò assume il valore di un rinnovamento di linguaggio che, per quanto conturbante, non scalfisce la posizione ereditata che si collega al concetto di artista inteso quale portatore di messaggio universale. In questo senso non sorprende il carattere proclamatorio assunto dalle ultime sinfonie che si richiamano ai valori morali più alti espressi dall’esperienza storica sovietica e che permettono alla critica ufficiale russa di celebrare in Sciostakovic la figura di un musicista vate. D’altra parte il tentativo di collocare il compositore sul filo della tradizione musicale nazionale che dalle origini ottocentesche passa attraverso il Gruppo dei Cinque e Ciaikovski si è sempre dimostrata un’operazione difficoltosa per non dire inutile, in quanto se ciò fosse vero non avremmo acquisito nessun reale principio di merito, ciò servendo semmai ad attribuirgli funzioni conservative incompatibili con la «dignità» di valoroso esponente del Novecento artistico.

Un fatto comportamentistico può invece fornirci la chiave per decifrare l’enigma che circonda la sua personalità e precisamente la sua posizione di compositore integralmente assorbito dalla sua funzione, nel senso che Sciostakovic non ha mai assunto il ruolo di teorico né sotto forma di trattatista direttamente impegnato a chiarire le ragioni delle proprie scelte né erigendosi a modello di cultura con proclami e decaloghi invocanti una rigida osservanza che ancor oggi in Russia rappresentano il motivo principale del merito civile. Con questo non è nostra intenzione ignorare la posizione di guida assunta da Sciostakovic nell’àmbito dell’Unione dei Musicisti del suo paese e nemmeno le sue pubbliche e codine dichiarazioni sulla necessità di salvaguardare lo stato di salute della musica sovietica contro le tendenze ereticali, ma tutto questo in fondo non trova corrispondenza diretta nel suo far musica e non solo rimane un dato marginale ma si manifesta come sintomo di inevitabile scotto che una personalità di valore pubblico si trova a dover pagare all’ambiente che la circonda al di là delle sue convinzioni più profonde. Possiamo infatti star certi che Sciostakovic non passerà alla storia come teorico del realismo socialista, mentre sempre più la sua musica appare come manifestazione di un genio eclettico la cui forte dose di innocenza gli ha permesso di attraversare le più turbolente vicende artistico-politiche senza riportare ferite indelebili e segni di profonda crisi.

Fisionomia

Non occorre infatti dimenticare che il suo ingresso trionfale nella storia della musica avvenne nel 1926 a soli vent’anni con la Prima Sinfonia che fissò chiaramente i tratti fondamentali della sua fisionomia, per cui in gran parte il suo ruolo fu determinato da una presa di coscienza abbastanza spontanea e immediata dal capovolgimento di valori attuato nell’arte del Novecento. Il fatto che a Sciostakovic non si ponesse il problema di aderire all’una o all’altra scuola e la fedeltà ancor oggi palese ai connotati stilistici individuati all’origine della sua esperienza farebbero pensare a un iter artistico sordo all’esigenza di sostanziale e radicale maturazione. La sua dichiarata simpatia per Alban Berg, intrattenuta addirittura da rapporti personali, non diventò causa di scelte di nuovo tipo e semmai si spiega con il perdurare nei due autori del senso di continuità della tradizione. Il suo stesso destino di sinfonista lo portò inevitabilmente su di un binario già tracciato a misurarsi con i passaggi obbligati percorsi da tutti coloro che alla sinfonia affidarono alti messaggi di civiltà. Sulla base di materiali rinnovati, caratterizzati da una carica antiromantica incline alla smorfia e alla caricatura, perciò portatrice di significati eversivi, Sciostakovic condusse un discorso in realtà affine per capacità ed estensione argomentante alla concezione tardo ottocentesca della sinfonia che riduce l’aspetto modernistico delle sue composizioni ad apparenza. E se l’istinto innato a produrre con rara forza prolifica, grazie a un rapporto straordinariamente problematico con il materiale, gli consentì di non arrestarsi alla tappa fatidica del numero 9 che a suo tempo aveva ossessionato gli spiriti inquieti di Bruckner e di Mahler, alla lunga l’usura del linguaggio, per quanto ringiovanito di nuova linfa, lo pose di fronte alla responsabilità di un compito che nelle ultime opere si rivela impossibile.

Tappa fatidica

La Quindicesima Sinfonia in questo senso appare come la tappa fatidica dilazionata. Essa si apre fra movenze sbarazzine di flauti che rimandano alla sua prima maniera, a quell’umorismo acido a denti stretti che rimane il suo connotato più personale in cui si rispecchiano le difficoltà del moderno umanesimo al quale non è concesso l’ottimismo. Ma diversamente dall’espressione giovanile che aveva trovato un suo spazio organico in cui svilupparsi, oggi essa viene incrinata dalla mancanza di prospettiva evolutiva. E con ciò si spiega la concessione alla citazione che nella Quindicesima non è più solo citazione di se stesso ma palese trasposizione rossiniana (il tema di marcia del Guglielmo Tell) e checché se ne dica il valore della citazione nella musica moderna corrisponde in un modo o nell’altro a un sintomo di impotenza. Sennonché ciò non si limita all’ossessività ritmica del tema rossiniano o all’effetto profanatorio del trombone da fiera nel primo movimento. La struttura stessa della composizione, che rinuncia più che in ogni opera precedente alla pienezza della grande orchestra a favore della frantumazione in momenti solistici, impedisce il rinnovarsi delle capacità oratorie che avevano permesso di riconoscere in Sciostakovic l’ultimo esponente della razza estinta dei sinfonisti. Il tentativo del violoncello, che apre il secondo movimento con una meditazione appassionata, viene spinto al limite della dissacrazione per eccesso di seriosità, che il fragoroso tutti orchestrale con pomposa marcia banale conferma.

Nel terzo movimento ritornano gli sberleffi con il goffo intervento dei fagotti, ma se da una parte ciò risuona come ritrovamento, a quanto già s’è detto, della bizzarra estrosità giovanile, dall’altra tale tematica esaspera in misura assai maggiore la tipica asimmetria metrica con l’affacciarsi di un gusto senza precedenti per la disintegrazione tout court. Il quarto movimento completa il compendio dell’arsenale stilistico di Sciostakovic con una cupa fanfara di ottoni ribaltata immediatamente in un languido andamento danzante e, per chi ancora non si fosse reso conto della tragica operazione in atto, un pizzicato ostinato dei bassi a mo’ di passacaglia inizia una lunga preparazione all’entrata di un arioso che gradatamente coinvolge l’intera orchestra per sfociare in un tutti sfacciatamente imperiale. L’enfasi oratoria è portata oltre il limite della decenza e la cornice garante della forma chiusa assiste inerte alla sfigurata carrellata finale di tutti i temi dell’opera, ultimo sussulto di una consuetudine compositiva che nella sua invecchiata stanchezza non può rinunciare all’abitudine di un’affermazione in toni ad ogni costo positivi.