Pubblicato nel 1920 con l'acronimo ‘R.U.R.’, scritto dal ceco Karel Čapek che per primo utilizzò la parola ‘robot’ (inventata dal fratello)
Quaranta capitoli che in realtà sono “note”, così le chiama chi scrive, l'affannato narratore il cui nome è un numero, D-503. Una cronaca in prima persona di quel che accade, nell'arco di un tempo di poco più di quattro mesi, nel luogo in cui vive, cittadino dello Stato Unico. È passato un millennio dalla guerra dei Duecento Anni, fra città e campagna e fra “io” e “noi”, soprattutto. “Io” è niente, “noi” è tutto. E sopra tutti i “noi” sta il Grande Benefattore. Ha vinto la città, naturalmente, e ha vinto la macchina, come accade spesso nelle distopie. A ogni persona, vale a dire numero, è assegnato un numero di sesso diverso per gli incontri amorosi. Si terranno in casa di uno dei due abbassando le tendine, dopo aver chiesto il permesso alla guardiana dell'edificio, in uno spazio di tempo strettamente calcolato. Tutto è calcolato nello Stato Unico e i muri sono di vetro: “Una campanella squillante, cristallina al capezzale – annota D-503 –: le sette, alzarsi. A destra e a sinistra, attraverso le pareti di cristallo io credo di vedere me stesso, la mia camera, il mio vestito, i miei movimenti, ripetuti migliaia di volte. Ciò dà coraggio: ti vedi come la parte di un Unico enorme, possente. E questa precisa bellezza: non un gesto superfluo, non una curva falsa, non una flessione irregolare”.
I muri sono trasparenti salvo uno. “L'uomo ha cessato di essere un animale selvaggio solo quando ha costruito il primo muro. E l'uomo ha cessato di essere un uomo selvaggio, quando noi costruimmo il Muro Verde, quando con questo muro verde isolammo il nostro perfetto mondo meccanicizzato dal mondo irrazionale e mostruoso degli alberi, degli uccelli, degli animali...”. Con tali premesse, si immagina cosa sia la giustizia, anzi la Giustizia, nello Stato Unico. E quanto alla letteratura conosciamo almeno tre titoli: ‘Odi quotidiane al Benefattore’; ‘Fiori delle condanne giudiziarie’; e “l'immortale tragedia” ‘Colui che tardò al lavoro’.
Fin dalla prima pagina appare l'Integrale, l'astronave di cui D-503 è il Primo Costruttore, che porterà sugli altri pianeti la vera felicità. Così si legge infatti nel ‘Giornale Statale’: “Spetterà a voi di piegare al benefico giogo della ragione gli esseri ignoti che abitano sugli altri pianeti, forse ancora nello stato selvaggio della libertà. Se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la felicità matematicamente esatta, è nostro dovere costringerli ad essere felici”.
Ma le trame sono uno scheletro, e più lo sono quando quel che vi cresce sopra e intorno è intenso e sorprendente. Poi le distopie si assomigliano tutte un poco, ma solo nei temi, nei fatti. E nei colori tutti spenti. La somiglianza si deve all'oggetto: l'identità monomaniaca di un regime totalitario all'altro. Evgenij Zamjàtin fu quasi il primo. Prima di lui solo il cecoslovacco Karel Čapek (ma i tempi della scrittura sono gli stessi, 1919-20) con il dramma ‘R.U.R.’ – nel quale compare per la prima volta la parola “robot” – che ha in comune con lo scrittore russo, insieme all'ispirazione satirica consueta nel genere, l'inclinazione al lirismo. In Russia ‘Noi’ fu pubblicato solo nel 1988, a oltre cinquant'anni dalla morte dell'autore, a Parigi, quarantatreenne. Ma in realtà il romanzo girò manoscritto clandestinamente appena terminato. La prima uscita assoluta è in inglese, nel 1924.
Il romanziere – e ingegnere navale – russo era partito da lontano per arrivare a Pietrogrado e al suo romanzo “fantastico”, come lo chiamò lui stesso: da certi racconti della vita di provincia che già rivelavano l'osservatore a cui la realtà stava un poco stretta. Tutto mutava rapidamente nella letteratura perché accelerò di colpo la realtà. Zamjàtin partecipò alla rivoluzione del 1905. Si iscrisse al partito socialdemocratico. Quindi andò in Inghilterra, nel 1916, a progettare un rompighiaccio. La rivoluzione del 1917 lo riportò di corsa in patria, dove non tardò a comprendere a cosa avrebbero portato i tempi nuovi. Nel 1920 uscì dal partito. Un anno prima aveva scritto: “Il mondo è vivo solo per gli eretici”.
Consideratosi morto perché privato della libertà di scrivere liberamente – “nessuna creazione è concepibile, se si deve lavorare in un'atmosfera di sistematica e sempre più accanita caccia all'uomo” – chiede una “commutazione della pena”, vale a dire la possibilità di lasciare il Paese. E lo chiese direttamente a Stalin, in una lettera del giugno del 1931, “grazie all'originale circostanza – scrive Ettore Lo Gatto che tradusse il romanzo per Feltrinelli – che Gor'kij poteva essere in quell'epoca contemporaneamente amico e del dittatore e del ribelle alla dittatura”. Glielo domandò con le parole che si leggono qui sopra, stralcio della lettera, e con queste: “In particolare io non ho mai nascosto il mio atteggiamento di fronte alla servilità, alla bassa adulazione e alla esagerazione di colori dei letterati d'oggi; ho ritenuto e continuo a ritenere che ciò umili ugualmente lo scrittore e la rivoluzione”. E Stalin acconsentì.
D-503 annota in modo concitato le sue giornate, con tanti salti, ellitticamente. Il più delle volte è un entusiastico sostenitore del sistema, che regola aritmeticamente la sua vita con quella di tutti. Altre volte non sappiamo cosa creda, mentre racconta. Quanto cioè la sua eccitazione sia per l'anelito all'obbedienza o per una diversa possibilità che intravede, senza comprenderla. Fin dalle prime pagine I-330, di cui è innamorato, gli prospetta tale possibilità, prima ambiguamente poi in modo sempre più scoperto. E noi aspettiamo l'ultima pagina dell'esaltato e ansioso diario di D-503, per sapere cosa deciderà lui. Speranzoso non sappiamo di quale speranza.