È sempre e solo negativa oppure può avere anche risvolti liberatori o, come direbbero alcuni, catartici? Ne parliamo con il filosofo Nidesh Lawtoo
Non occorre essere particolarmente lungimiranti per rendersi conto che un certo grado di violenza, che lo si voglia o meno, è presente nel mondo. Il problema semmai è provare a indagarne le logiche profonde, al fine di cogliere la parte oscura che si annida nella realtà. Di fronte a un compito così scomodo, il tema della violenza è sempre apparso controverso: e anche quando lo si è affrontato, ha sempre suscitato reazioni e posizioni contrastanti. È sintomatico in questo senso il dibattito che attraversa la storia del pensiero occidentale, sempre attualissimo, fra coloro che sostengono che un certo tipo di violenza – quella che gli spettatori sperimentano a teatro, nel cinema o nei videogiochi – abbia una funzione catartica, e coloro che mettono in guardia contro le influenze nefaste che l’esposizione alla violenza mediatica, e in generale a spettacoli violenti, può avere sulla mente di spettatori particolarmente fragili e impressionabili. L’opposizione fra catarsi e contagio non vi dice niente? Pensateci bene, poiché è proprio attorno a tali alternative che si struttura gran parte del dibattito sulla violenza in Occidente. Ricostruire tale dibattito, ritrovarne i protagonisti, è possibile. È proprio ciò che ha fatto il mesolcinese Nidesh Lawtoo, filosofo e professore di letteratura e cultura moderna all’Università di Leida, in Olanda. Negli ultimi anni Lawtoo ha sviluppato, nel quadro di un progetto ERC finanziato dall’Unione europea, un’originale riflessione interdisciplinare sul tema dell’imitazione, pubblicando diversi saggi in inglese, molti dei quali sono disponibili in traduzione italiana. Abbiamo incontrato l’autore per parlare di uno studio in due volumi sul tema della violenza mediatica recentemente tradotto dalla casa editrice Mimesis di Milano.
Prof Lawtoo, lei ha appena pubblicato uno studio in due volumi, rispettivamente Violenza e catarsi (vol. 1) e Violenza e contagio (vol. 2). Il filo conduttore è dunque il tema violenza?
Noi umani, in uno slancio di ottimismo storico, abbiamo avuto la pretesa di chiamarci Sapiens. Ma, passata l’euforia razionalista che pervade l’Illuminismo, abbiamo più che mai fatto prova di atti di violenza che sfuggono al controllo razionale. I miei libri però non parlano tanto della violenza in generale, quanto di violenza mediatica, e dell’effetto che questa ha sugli spettatori nella nostra epoca digitale. La domanda che mi pongo è la seguente: la violenza mediatica – quella che si trova in un film, una serie televisiva, un cartone animato, o un videogame – ci fa star meglio, ci libera dalla violenza che è dentro di noi? Oppure ha l’effetto contrario: alimenta altra violenza e, per una forma di contagio affettivo, trasborda dai media alla realtà? I due libri approfondiscono entrambe queste possibilità.
E perché due volumi, anziché uno?
All’inizio, volevo scrivere un piccolo saggio che abbordasse entrambe le ipotesi. Doveva essere intitolato, La Violenza e l’inconscio: dalla catarsi al contagio. Naturalmente, quando si parla di inconscio bisogna spiegare cosa si intende. Ho dunque operato una distinzione tra l’inconscio scoperto dalla psicoanalisi, basato sul mito di Edipo e legato a ciò che Freud chiamava “metodo catartico”, e l’“inconscio mimetico” in riferimento alla tendenza inconscia, che di recente ha trovato conferma nelle neuroscienze, a imitare dei modelli. Ma poi questo libro si è allungato, al punto che il mio editore inglese mi ha suggerito di dividerlo in due. Il risultato è dunque un dittico le cui parti si possono leggere indipendentemente ma, sostanzialmente, nei due volumi adotto lo stesso tipo di approccio, che definirei “filosofico-poliziesco”. Mi metto nei panni di un detective che vuole indagare il caso della violenza mediatica e dei suoi effetti.
Uhm, interessante questa storia del detective…
Naturalmente, per fare un’indagine accurata bisogna seguire delle tracce che, nel mio caso, non sono solo empiriche e quantitative ma filosofiche e qualitative. In particolare, seguo le tracce di filosofi e pensatori umanistici che per primi hanno sviluppato le ipotesi della catarsi (un concetto greco che si traduce spesso, e un po’ a torto, con “purificazione”) e del contagio emotivo. Sono temi che hanno appassionato una lunga catena di filosofi e pensatori dall’antichità al presente. Non mi sono annoiato scrivendo il libro, ma ho imparato molto.
Oltre a riferirsi ai pensatori dell’antichità come Platone e Aristotele, non disdegna esempi legati al cinema hollywoodiano, o a videogiochi immersivi che sono noti più agli adolescenti che agli adulti…
Esatto. La mia ricerca, infatti, prende spunto da una scena di un film di fantascienza, diretto da Brian Miller, chiamato Vice. In questo film, Bruce Willis interpreta un Ceo di un resort di lusso chiamato VICE (vizio) in cui si può dar sfogo a qualsiasi impulso, inclusi impulsi violenti, sessuali, e criminali: la violenza è ammessa nella misura in cui è diretta contro delle bellissime escort chiamate “artificials” perché non sono umane, ma sono dei robot artificiali. VICE, in questo senso, è una metafora del mondo virtuale delle simulazioni online, dei siti pornografici, e dei videogame, dove sfogo, violenza, e sessualità “virtuale” abbondano. Se il personaggio incarnato da Bruce Willis, che ha interessi economici in gioco, suggerisce che all’interno del VICE resort la violenza abbia effetti catartici-terapeutici, il detective del film sospetta invece l’opposto: che le esperienze virtuali possano avere effetti patologici nel mondo reale. Il film tematizza la violenza in modo accessibile a tutti, inclusi i genitori che giustamente si interrogano sull’effetto della violenza mediatica, delle simulazioni online o dei videogame sui loro bambini. Dato il mio approccio filosofico-poliziesco, è facile capire che sono piuttosto dalla parte del detective…
Bruce Willis, al centro, in ‘Vice’ (2015)
Il termine catarsi, diceva, ha una lunga storia e continua a essere utilizzato nei dibattiti contemporanei sulla violenza. Lei però sostiene che sia molto ingannevole e potenzialmente fuorviante. Perché?
Si sente dire, per esempio, “ho visto un film un po’ violento, ma alla fine è stata un’esperienza catartica”, come se da qualche parte ci fosse una valvola di sfogo emotiva che ci fa star meglio e che ci “purifica” da emozioni violente. Non è certo un caso che la traduzione più corrente del termine greco katharsis sia purificazione. La popolarità di questa traduzione dovrebbe però fare riflettere: prima di tutto, perché nemmeno gli specialisti sanno cosa Aristotele abbia esattamente voluto dire quando affermava che la tragedia genera la “katharsis della pietà e della paura”. E poi perché la traduzione di catarsi in termini di “purificazione medica” deve molto al successo popolare della psicanalisi e a ciò che Sigmund Freud e il suo collega Josef Breuer chiamavano il “metodo catartico”. Come detective filosofo, però, ho buone ragioni per nutrire un certo sospetto riguardo a questa traduzione medica che da Freud arriva fino a Bruce Willis e ai videogame contemporanei ma che, come svelo nel libro, è da prendere con le pinze.
E come la mettiamo, invece, con il contagio?
Una volta esplorata l’ipotesi della catarsi, passo al versante opposto, quello del contagio emotivo. Il primo a prestare attenzione a questo tema fu Platone, che si preoccupava che spettacoli di violenza come l’Iliade, che all’epoca veniva recitata in teatri che contenevano fino a 20’000 spettatori, potessero avere effetti contagiosi e patologici sulla parte irrazionale dell’anima. Nel famoso Mito della Caverna, in cui le ombre proiettate contro la parete hanno effetti quasi magnetici e ipnotici, lo scenario non è poi tanto diverso dal cinema di oggi. E che dire dei dispositivi digitali come smartphone, che ci ammaliano con ombre simulate che operano sul nostro inconscio mimetico, creando spesso dipendenza? Con la scoperta dei neuroni specchio negli anni 90, che “sparano” alla vista di gesti altrui, persino le neuroscienze ci portano a essere cauti di fronte a una possibile overdose di simulazioni digitali violente che, mentre parliamo, formano e trasformano le nuove generazioni. Come diceva già Platone, i giovani, ma non solo, sono impressionabili; anche per gli adulti, la distinzione tra realtà e finzione è sempre più difficile da fare. Apparteniamo in effetti a una specie che, come dicevo, aspira a essere Homo sapiens in teoria ma che, in pratica, è molto, molto imitativa, sia nel bene sia nel male. Io chiamo questa specie homo mimeticus.
I suoi libri si concludono spesso con una critica all’iperspecializzazione del sapere in ambito accademico. Perché le interessa tanto la questione?
A livello accademico, la specializzazione è importante, ma se si vuole capire un problema come quello della violenza mediatica, o dell’imitazione, ci si rende presto conto che ci sono varie prospettive da considerare, perché i problemi più complessi non si fermano ai confini di una disciplina. Aristotele ha sviluppato un concetto filosofico (katharsis) che è stato poi ripreso da Nietzsche nel contesto di teorie estetiche, da Freud nel contesto della psicoanalisi nascente, e da Girard in una prospettiva antropologica. Analogamente, l’imitazione può essere studiata a livello neuronale o psicologico, individuale o collettivo, cosciente o inconscio. Ecco perché il mio libro sulla violenza nei nuovi media termina con un invito rivolto ai giovani ricercatori ad andare oltre i limiti e i vincoli dell’iperspecializzazione. Uscire dall’iperspecializzazione è la chiave per vedere un problema antico che riguarda tutti, come può essere quello dell’imitazione, sotto una nuova luce che evidenzia anche gli aspetti più attuali legati ai nuovi media.
Per saperne di più: Nidesh Lawtoo, Violenza e catarsi. L’inconscio edipico. Volume 1 (Mimesis: 2024) e Violenza e contagio. L’inconscio mimetico. Volume 2 (Mimesis: 2024)
I due volumi