Una mostra esplora i significati nascosti delle fotografie personali. Ne abbiamo parlato con Katharina Lobinger e Federico Lucchesi dell’Usi
Dire che la nostra è una, se non la, società dell’immagine è una di quelle affermazioni che diamo per scontate, senza riflettere davvero sul ruolo che le immagini giocano nelle nostre vite e che cosa significhi, ad esempio, avere sempre in tasca una macchina fotografica o il poter utilizzare l’intelligenza artificiale per modificare, e alterare, le immagini con una facilità inimmaginabile fino a non molti anni fa.
«Gli oggetti fotografici sono complessi» ci ha spiegato Katharina Lobinger, professoressa alla Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana. «Ma questa complessità spesso ci sfugge e non ci rendiamo conto, ad esempio, che una fotografia esposta in un museo ha un significato e una funzione che sono diversi da quelli di una fotografia che si scambiano due amici». Ed ecco quindi l’idea: farci riflettere sulla complessità degli oggetti fotografici portando i selfie in un contesto museale. La mostra ‘Doppio Sguardo’ presenta appunto queste fotografie, anonimizzate da un’intelligenza artificiale, esposte insieme alle informazioni sul loro significato per le persone che l’hanno scattata e condivisa. L’esposizione si è aperta ieri a Villa Ciani a Lugano, dove sarà visitabile nelle giornate di giovedì, venerdì e sabato fino al 23 novembre, per trasferirsi poi alla Biblioteca cantonale di Bellinzona dal 5 al 21 dicembre, con in programma diverse attività per le scuole. Info su www.doppiosguardo.ch.
Questo progetto, ha raccontato Lobinger, è nato all’interno di un progetto finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica per esplorare il ruolo della comunicazione visiva interpersonale: ViRe, ovvero Visualized relationships, aveva lo scopo di capire quali ruoli ricoprissero le fotografie nei rapporti d’amicizia o d’amore. Federico Lucchesi, oggi assistente e coordinatore del progetto Doppio Sguardo, ci ha spiegato che alla ricerca «hanno partecipato trenta coppie di partner o amici, per un totale di novanta interviste: una “di coppia” e poi una individuale». Questa ricerca mostra l’importanza delle foto non solo come ricordo, ma anche come momenti di condivisione, di costruzione di uno spazio comunicativo comune attraverso immagini anche banali. Tuttavia Lobinger e Lucchesi hanno notato una cosa strana, sulla quale si è appunto deciso di costruire Doppio Sguardo. «Quando abbiamo chiesto alle persone se si fanno dei selfie, la risposta è stata un secco “no, non ci piacciono, sono stupidi, sono da narcisisti, sono da giovani”» ha spiegato Lobinger. «Quando però andiamo a vedere le fotografie che per loro sono importanti, spesso erano selfie o comunque altre immagini prima criticate perché banali o superficiali».
Una sorta di doppio standard, uno stigma su certe forme di comunicazione visiva usate quotidianamente. «Parliamo di fotografie che non sono capolavori artistici, anzi sono spesso esteticamente brutte o insignificanti ma che hanno una funzione comunicativa importante, servono a sentirsi vicini». E che meritano, appunto, un secondo sguardo che ci inviti a considerarle nella loro complessità.
Dietro questo stigma, ha proseguito Lobinger, ci sono diverse dinamiche. «Da un lato abbiamo una “critica generazionale”, con adulti che dicono che i selfie sono una cosa da giovani, associandoli all’adolescenza e questo vale in particolare per le giovani donne, spesso accusate di egocentrismo. Ma non è solo una questione di età: quando intervistiamo i più giovani, ci dicono che si sentono a disagio a fare un selfie in pubblico. Si rendono benissimo conto di questo sguardo critico». Una consapevolezza, ha aggiunto Lucchesi, «che può portare le persone a non scattare più foto o a scattarne meno in determinati contesti o a condividere meno immagini sui social media, perché considerati segno di esibizionismo o di egocentrismo». Perdendo così l’opportunità di costruire un momento condiviso con una persona cara.
Quando giudichiamo una fotografia giudichiamo cosa e come è raffigurato. «Ma magari il significato di quella foto è il semplice fatto di averla scattata e condivisa con l’altra persona, un modo per dire “ti sto pensando”» ha spiegato Lobinger. Cosa che capita comunemente nella comunicazione verbale, dove però le parole banali e apparentemente insignificanti che si scambiano le persone non ricevono tutta questa riprovazione sociale.
«Spesso ci sono informazioni contestuali che non sono visibili nell’immagine o che non sono visibili ad altre persone, perché nascono all’interno della relazione della coppia di amici o partner, e che quindi sono comprensibili soltanto a loro». Una sorta di lessico familiare composto di immagini.
La mostra presenterà due volte la stessa immagine: su un lato del pannello la vedremo “normalmente”, con lo stigma sociale con il quale spesso giudichiamo i selfie; sull’altro lato avremo tutta la storia raccontata dai protagonisti. «Quelle che troveremo in mostra non sono le fotografie originali: abbiamo utilizzato una IA generativa per ricreare le immagini senza cambiarne la struttura, in pratica sostituendo le persone reali con persone che non esistono, mantenendo però la gestualità e la comunicazione non verbale dell’originale». Un falso non per ingannare il prossimo, ma per proteggere la privacy.