laR+ Culture

I Cure e il freddo, malinconico canto del loro mondo perduto

La band di Robert Smith torna con un disco dopo 16 anni. Il tempo che passa, le persone care che non ci sono più, il dolore al centro di un'elegia dark

L’attesa è finita
(Keystone)
5 novembre 2024
|

Nel 1969 la psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, nel libro ‘La morte e il morire’, delineò le cinque fasi della loro elaborazione: negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione. Il 1° novembre, dopo sedici anni dall’ultimo album, i Cure – gruppo rock/dark per eccellenza – hanno finalmente pubblicato ‘Songs of a Lost World’, cinquanta minuti suddivisi in otto brani che mostrano come Robert Smith – penna, anima, mente, corpo e voce dei Cure – sia riuscito dopo ormai quasi cinquant’anni di carriera ad arrivare proprio lì. All’accettazione.

Ci è arrivato dopo la negazione degli esordi scanzonati di fine anni Settanta, la rabbia prima gelida poi urlata della storica tripletta ‘Seventeen Seconds’/‘Faith’/‘Pornography’, la negoziazione dei dischi più pop di metà anni Ottanta come ‘The Head on the Door’ e ‘Kiss me, Kiss me, Kiss me’, la depressione cosmica della pietra miliare ‘Disintegration’ e del suo ideale seguito ‘Bloodflowers’ arrivato nel 2000. Mancava l’ultimo passo, guardando la clessidra che ha sempre meno sabbia e vede scorrere il tempo con la autunnale malinconia che accompagna il rendersi conto della fragilità di ogni passo che si compie. E del fine ultimo che a volte sembra sfuggire, quando il destino è uguale per tutti e ben che vada cambia solo come lo si raggiunge. ‘Songs of a Lost World’ è l’accettazione, solida e consapevole, di come tutto passa e anche noi. Di come si nasce soli e si muore soli. Di come combattere per la bellezza e per l’amore sia sempre la buona battaglia, per provare a riempire di dolcezza e sentimento una parentesi che è da considerare tale senza pretese di immortalità o sottovalutazione di cosa voglia dire oggi esserci, e domani chissà. La sabbia nella clessidra è sempre meno, nel mondo perduto dei Cure.

E si comincia con la monumentale ‘Alone’, che deve le fondamenta al poeta inglese Ernest Dowson e alla sua ‘Dregs’ per quella “fine di tutte le canzoni che cantiamo” che sarà il Leitmotiv dell’intero disco. Si prosegue con le amare ‘And Nothing is Forever’ e ‘A Fragile Thing’ a testimoniare come davvero tutto sia provvisorio e la parvenza di solidità che si dà alle cose risponde al naturale bisogno di amare e sentirsi amati sapendo di avere una data di scadenza a noi sconosciuta. Il dolore della guerra e della desolazione trova spazio nelle brevi e dure ‘Warsong’ e ‘Drone:Nodrone’. Il passaggio dal buio del mondo al buio dell’anima si ha con le tristissime e malinconiche ‘I Can Never Say Goodbye’, scritta e dedicata da Smith al fratello maggiore morto recentemente, e ‘All I Ever Am’ che è la testimonianza del tempo che passando lascia solo fantasmi e rimpianti. E poi si arriva alla fine. A ‘Endsong’, il culmine dell’album e il brano più riuscito, dieci minuti di serena e quieta disperazione, con un sospiro e una lacrima a rigare il viso, con il testo che è quasi una coda della lunghissima e dilaniante prima parte strumentale che fa arrivare alla conclusione che tutto del proprio mondo è perso, dopo essere diventato sempre più lontano fino a dissolversi lasciandoci soli assieme al niente, ancora una volta, “alla fine di tutte le canzoni” di Dowson. Come davanti a un camino acceso in cui perdersi negli occhi e nel fatuo calore delle fiamme che prima o poi diventeranno fredda cenere.

Non c’è rabbia nei testi che Smith ha scritto per questo ritorno dei suoi Cure. Ci sono semmai un cerchio che si chiude e una presa d’atto della bandiera bianca che va issata davanti a cose talmente più grandi di noi da interrogare da sempre religioni e filosofie senza aver ancora trovato una risposta che vada bene a tutti. È un disco che vibra nel silenzio, che lo riempie e lo fa vivere di lampi e pioggia sul viso che si mischia con le lacrime che hanno lo stesso peso specifico di sorrisi regalati ai bei tempi andati e che non torneranno, a promesse di “per sempre” che non possono mai essere mantenute. Alla sabbia della clessidra che è finita. La sorpresa di trovarci così, nella notte di Ognissanti, davanti a un album così ben fatto, così denso di significato e sincerità, aiuta a dipingere e tratteggiare questo mondo perduto per quello che è. Un posto dove sedersi “fuori, al buio, a fissare la luna rossa come il sangue”, sentire freddo alle spalle e ricordare quanta meraviglia e quanti abbracci di una madre, di un padre, di un fratello, di una sorella, di un amore ci sono stati e continueranno a esserci dietro ogni palpebra che si chiude per sempre.