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Far emergere dall’ombra scorci di mondo

Reto Albertalli è tra i fotografi ufficiali di Unicef, ma si muove anche in vari altri ambiti. Quel che succede nello spazio tra obiettivo e soggetto

Nepal, nell’immediato dopoterremoto del 2015. Ritratto di Smiti, 5 anni
(reto albertalli)
7 novembre 2024
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«A differenza della macchina militare da guerra che mira a disumanizzare l’avversario e la popolazione ritenuta nemica, la macchina fotografica è in grado di dare un volto alle vittime, a chi soffre per le guerre fatte con i fucili e le bombe ma anche per lo sfruttamento economico o il riscaldamento climatico che porta desertificazione, povertà e fame. Mostrare questo tipo di immagini è importante non tanto perché sono convinto che possano cambiare il mondo – questo ho smesso di crederlo –, ma perché permettono di far capire cosa succede laddove normalmente non si ha accesso. E quando il destinatario di questo tipo di lavoro è un pubblico non avvertito come quello dei bambini, il valore è ancora più grande». Classe 1979, professione fotografo, Reto Albertalli – nato e cresciuto nel Sottoceneri e attualmente attivo a livello nazionale e internazionale – dal 2015 a questa parte si occupa delle immagini del progetto “Settimane delle stelle” promosso da Unicef in collaborazione con la rivista “Schweizer Familie” che invita i bambini residenti in Svizzera a organizzare delle collette attraverso iniziative da loro proposte (vendita di torte o altre creazioni, eventi sportivi, musicali, teatrali) da destinare ogni anno a uno specifico Paese. Il 2024 è dedicato al miglioramento dell’assistenza sanitaria per madri e figli in Burundi, che Albertalli ha visitato dopo le esperienze in Nepal, Libano, Sud Sudan, Bolivia, Ruanda, Brasile, Madagascar e Bangladesh.


reto albertalli
Sud del Madagascar, intorno a un pozzo d’acqua potabile. C’è chi cammina fino a 8 ore al giorno per rifornirsi

Il testimone della fiducia da trattare con delicatezza

«Il privilegio di mandati come quello di Unicef, oltre al fatto di aprire le porte a Paesi altrimenti molto difficili da vedere, è che come fotografo si gode della fiducia creata con la popolazione da parte di chi si occupa di fornire gli aiuti – rileva Albertalli –. È come se di tale fiducia si ricevesse il testimone, che però va trattato con molta delicatezza perché in ogni momento si può rovinare». Per Albertalli la fotografia è capace di registrare la qualità della relazione tra l’autore e il soggetto: «Se la relazione vibra, ma anche al contrario se è inesistente, nell’immagine si percepisce chiaramente». Ma non si tratta per forza di una questione di tempo: «Con tanta empatia e umanità è possibile costruire relazioni anche molto intense nello spazio di qualche scatto», si dice convinto il fotografo. Consapevole di essere un uomo bianco che racconta anche di persone non bianche, un maschio che racconta anche di donne e bambini, Albertalli non manca di interrogarsi costantemente sulla rappresentazione che dà del mondo. L’approccio adottato in tutte le circostanze «è quello di creare relazioni orizzontali, di scendere al livello dei più piccoli, di entrare in sintonia scherzando e ridendo con loro. Non è perché le persone sono povere o malate che non hanno voglia di passare un momento spensierato».


reto albertalli
Nepal, nell’immediato dopoterremoto del 2015. Ritratto di Smiti, 5 anni

E di persone in grande difficoltà Albertalli ne ha viste molte. Ma c’è un limite oltre cui la macchina non è legittimata a scattare? «Per me sì – risponde –. Non sono un voyeur, uno che si ferma a fotografare un incidente o che utilizza le zone di crisi per fare immagini sensazionalistiche. In situazioni come quelle con cui mi confronta Unicef, fatte di ospedali dove i bambini lottano per sopravvivere e le mamme per non perderli, per legittimare la mia presenza e riuscire a guardare negli occhi quel dolore mi dico che io rappresento più la soluzione che non il problema. Non che le mie foto abbiano proprietà salvifiche – rimarca –, ma confluiscono in una macchina comunicativa che mette in contatto bambini lontani in una relazione di solidarietà. So che le mie foto e i testi correlati sono al centro di discussioni e riflessioni nelle classi, nelle associazioni, nelle famiglie, e che questo può portare a delle azioni concrete». Riferendosi al Galà che ogni anno Unicef organizza per i bambini che in Svizzera hanno promosso la raccolta fondi, Albertalli lo definisce «un momento davvero speciale perché spesso il pubblico del mio lavoro non lo conosco veramente. Incontrare questi bambini, che oltretutto si sono impegnati, fa caldo al cuore».

Tra estrema povertà e straricchezza: la macchina fotografica come passaporto

Non solo reportage sociali – «anche se sono quelli che nutrono la mia anima, il mio motore» –, tra i clienti di Albertalli figurano pure grandi marchi internazionali dello sport e del lusso, testate come “The New York Times”, e altri al servizio dei quali mette il suo lavoro «con onestà. Ho visto tanta povertà estrema ma pure tanta straricchezza, e anche a questa ho avuto accesso grazie alla macchina fotografica», dice il professionista ticinese sottolineando come l’immagine, quale linguaggio universale, «forse il più “parlato” al mondo», mantenga una potenza grandissima, «altrimenti le aziende non continuerebbero a spendervi milioni».

Potenza che Albertalli ha toccato con mano in particolare in quelle che annovera tra le esperienze che più lo hanno segnato, ovvero tre viaggi all’insegna del volontariato in Palestina (nei Territori occupati), in Afghanistan e in Brasile, dove ha tenuto dei corsi di fotografia a dei giovani del luogo. «Le mie lezioni erano legate a dei progetti di centri culturali e artistici creati dalle persone del posto per i bambini e i giovani quale alternativa alle armi. Armi in senso lato – specifica –: in Afghanistan può voler dire andare con i talebani, a Rio de Janeiro vendere droga. Al posto di mezzi di distruzione veniva dunque loro offerto un mezzo di espressione e di liberazione. In particolare le ragazze in Palestina e in Afghanistan facevano la scoperta di una lingua segreta attraverso cui manifestare anche ciò che normalmente non era loro permesso. E questo – commenta Albertalli – è straordinario». Non cambierà il mondo, ma la fotografia può talvolta aiutare a illuminarne le ombre.

Settimane delle stelle

‘Cari bambini, ecco come potete aiutare’

Da ormai 20 anni, migliaia di bambini si mobilitano per aiutare altri bambini in difficoltà nel quadro delle “Settimane delle stelle” di Unicef (il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia). Nel 2024 l’iniziativa si terrà dal 15 novembre fino a Natale ed è dedicata al Burundi. Con una popolazione di 13,6 milioni di persone, il Burundi è uno dei Paesi più densamente popolati del mondo. L’80% dei suoi abitanti è impiegato in agricoltura, sulla quale le inondazioni hanno gravi ripercussioni nel contesto di una situazione alimentare già molto precaria. Il gruppo più colpito dalla fame è quello dei bambini piccoli fino a 2 anni. Più del 50% di loro soffre di disturbi della crescita, il 21% tra 6 mesi e 2 anni non ha accesso a un’alimentazione varia, e la mortalità infantile rimane estremamente alta. Servizi sanitari inadeguati per madri e neonati, la mancanza di farmaci e operatori sanitari rappresentano un ulteriore problema.

Il progetto “Settimane delle stelle” mira a migliorare l’assistenza sanitaria per madri, neonati e bambini piccoli formando adeguatamente il personale che se ne occupa e fornendo integratori alimentari, nonché rinnovando le infrastrutture idriche e sanitarie nelle strutture mediche per creare un ambiente più salubre. Tutte le informazioni su come aderire alla colletta e ricevere il materiale informativo e l’apposita cassetta si trovano su https://kidsunited.unicef.ch/it/aiutare/settimane-delle-stelle/2024-burundi.


reto albertalli
Burundi, visita medica