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Quel parlare ultimo di Stefano Massari

Classe 1969, nato a Roma ma vivente a Bologna, è tra i poeti che fanno male. Viene riproposto nella raccolta degli introvabili primi tre libri

Edito da Industria&Letteratura
29 ottobre 2024
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Ci sono poeti che dopo averli letti li dimentichi, altri li ricordi e basta, ma solo alcuni ti fanno male, entrandoti nell’attenzione, stravolgendoti nell’ascolto, lasciandoti ben poco spazio di decisione perché la loro parola è così esatta che non puoi far altro che patirla. Ma quando una poesia è così pre-potente il male sopradetto non è “il male”, ma una colmità che ti raggiunge fino alla fine. “il male di non restare innocenti e disobbedire/costruire una casa con questa pelle di padre/e tenere vivo il sangue e sempre oltre i muri/le città le sgravi le terre in rovina/i terrificanti mari”. È ciò che mi è accaduto leggendo questa raccolta formata dai primi tre libri (ormai introvabili) di Stefano Massari (poeta e videomaker nato a Roma nel 1969, ma vivente a Bologna) che la collana poetica Reloaded – diretta da Gabriel Del Starto e Niccolò Scaffai – ha intelligentemente rimesso in circolazione. Tre titoli che si sono avvicendati ogni tre anni – diario del pane (2003), libro dei vivi (2006), serie del ritorno (2009) – con una scadenza mai risolutiva che, al contrario, ha posto questa voce certa della nostra poesia contemporanea, al riparo da qualsiasi perdita d’energia.

La parola di Massari difatti trova una parola di poesia estorta dalla quotidianità, capace di regolamentare delle situazioni e delle vicende, che vengono riproposte da un punto di vista totalmente differente dalle loro origini, conducendo il lettore in un capogiro esperienziale di vertiginosa franchezza: “chi è stata madre urla, chi è stato padre contempla il nulla”. Anche il suo modo di organizzare la punteggiatura e la struttura dei versi (inizi senza maiuscola, punti intermittenti che segnano le cesure, spaziature doppie che governano le cadenze), sono rivelatori di un’indagine necessaria alla sua ricerca di essenzialità e pudore. Nulla si dimena nell’inutilità del semplice percepire uno stato d’animo e tutto diventa selezionato da un’imprescindibile voglia di farsi capire. La parola di poesia qui si fa traccia di un’esperienza che si mette alla prova non solo nella trafila di un vissuto, ma si fa portatrice di una lingua maternale che diventa sua per scelta e per generosità.

Stefano Massari vede le parole e con quest’attenzione alla iconicità dell’espressione, costruisce scene che hanno in sé il dinamismo di un girato filmico. La sua poesia ha sempre (e le sue prime tre raccolte qui lo testimoniano) cercato di definire un mondo colto in piena vitalità, là dove anche le morti, le mancanze e gli abbandoni sapevano come pareggiare i conti. Il suo respiro è un afflato spezzato, il suo ritmo è un gotico procedere nelle atmosfere oscure rarefatte, colme di una musicalità che riporta alla memoria i climi di una certa area musicale dark degli anni Ottanta (Joy Division, Bauhaus fino agli epici Dead Can Dance). Ma qui la parola accade come generatrice di espressività percettiva, dove è sempre al reale che, il poeta rimanda, per confrontarsi con il vero: “poi mi senti e non è più un sorriso il tuo è l’inverno/ di tutti che arriva nascondendo la ruggine delle porte/annunciando solo le assenze come sempre è la legge”. È ogni volta al corpo, che Massari chiede il permesso di essere parola, immagine e percezione. È sempre alla corporalità che la sua poesia si dispone per diventare scena e vicenda evocata. Nulla accade al di fuori del corpo che agisce e patisce una storia, un amore, una relazione e in questa partitura del vivere la poesia diventa segnavia di un intravedere ancora una soluzione di respiro: “è un vento onnipotente a entrarti da nord/a nutrirti un incendio tra i capelli ora che tremi piano/e ridi sulle labbra che ti ostini a chiudermi tra i fianchi/ora che ho imparato a spingerti a curarti a combatterti/ti bevo ogni bene e la prova che cerchi”. È da queste parole che il poeta comincia a restare persona, individuo e mondo, che la poesia diventa annuncio, grido e rivolta perché ogni poeta dovrebbe saper dire che “non sono nato per obbedire o disobbedire/sono nato per dare e chiedere ascolto”.

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