‘Nunca Fui Adolescente’, sullo sfondo di un’Argentina che interroga, le adolescenti ritratte da Tiziana Amico. A Gordola, Casa Azul, fino al 6 ottobre
Nell’anacronistica e affascinante cornice di Casa Azul, a Gordola, l’esposizione ‘Nunca Fui Adolescente’ di Tiziana Amico accoglie d’impatto i visitatori di Verzasca Foto Festival, con un rimando immediato – attraverso le immagini – di sguardi orgogliosi, sullo sfondo di un’Argentina che interroga. Le immagini sono installate in maniera totalmente immersiva, gigantografie appese o sospese su tela, in un contesto in cui il dentro e il fuori, l’io e l’altro, l’artista e lo spettatore, si trovano a condividere la stessa esperienza. Questo, tra le altre cose, colpisce particolarmente: una narrazione visiva e sensoriale che continua fuori dalla fotografia attraverso l’arredamento e le parole, che accompagna lo spettatore in quella terra di mezzo, un mondo indefinito, che è il periodo adolescenziale. Una trasformazione importante che qui assume una forza particolare, poiché, comprimendo il tempo che la società vorrebbe e che forse il corpo necessiterebbe, le adolescenti sono anche, loro malgrado forse, giovani madri, e si trovano così ad affrontare contemporaneamente due fondamentali autoaffermazioni. Si intuisce il forte legame che l’artista Amico, fotografa italiana che vive a Zurigo, ha instaurato con le giovani protagoniste argentine, si percepisce il valore di una ricerca che indaga temi di identità e appartenenza attraverso il corpo e lo spazio, ma anche si riconosce una profonda predisposizione alla rivendicazione sociale nel racconto inusuale di questa realtà. Colpita da questo voler ritrarre al di fuori degli stereotipi, raccontare tre mondi che si intersecano, in un Paese in continuo fermento, ho voluto conoscere più da vicino il lavoro di Tiziana Amico, visibile sino al 6 ottobre a Gordola.
Come nasce l’idea di indagare questa terra di mezzo, di trasformazione, che solitamente dovrebbe essere cronologicamente divisa in adolescenza, età adulta e genitorialità?
Dalla consapevolezza che la vita reale spesso non segue le categorie rigide che tendiamo a imporle. Si tratta di fasi della vita che per le madri adolescenti si sovrappongono in modo unico e complesso. Mi ha sempre affascinato questa sovrapposizione perché mette in luce non solo le sfide, ma anche la loro straordinaria resilienza. Attraverso il mio lavoro, voglio indagare come si sentono riguardo all’adolescenza, come la loro identità di madri vi si intreccia e come la società le percepisce e spesso le stigmatizza. Questo processo di indagine diventa anche un atto di giustizia sociale, che cerca di mettere in discussione e ridefinire le narrative che la società costruisce attorno a loro.
Perché in Argentina? Essendo il tuo lavoro fortemente simbolico – come vedremo dopo – mi vien da pensare che anche la scelta di questo Paese, così legato all’immagine della Madre con la Plaza de Mayo, non sia casuale.
In precedenza avevo lavorato a un progetto sull’allattamento a Caracas e nel contesto della crisi socio-economica in Venezuela ho osservato come l’accesso limitato alle risorse sanitarie influisse non solo sulla capacità di nutrire adeguatamente i neonati, ma anche sulla salute delle madri stesse. Questa esperienza mi ha spinto a esplorare più a fondo le sfide legate alla maternità, specialmente tra le adolescenti che si trovano spesso a dover affrontare queste difficoltà in modo ancora più drammatico. Dopo ulteriori ricerche, ho scoperto che in quel momento l’Argentina registrava uno dei tassi più alti di maternità adolescenziale in America Latina. Questo mi ha portato a interrogarmi su come le giovani donne affrontano il loro ruolo di madri in un contesto dove il diritto all’aborto, fino a poco tempo fa, era inesistente e dove la mancanza di sostegno sociale ed economico complica ulteriormente la loro situazione. Molte ragazze non avevano altra scelta se non quella di diventare madri quando avrebbero dovuto essere libere di cercare di scoprire la propria identità. Un atto di sopravvivenza, ma anche di resistenza. Poi, certo, il Paese ha una storia complessa e stratificata, la figura della madre ha un significato particolarmente potente, sia a livello culturale che politico. Le Madri di Plaza de Mayo hanno trasformato la maternità in un atto di resistenza contro la violenza di Stato e l’ingiustizia, dimostrando come il ruolo di madre possa assumere una dimensione pubblica e collettiva.
Come le immagini possono plasmare le narrazioni?
In questo progetto non sono solo rappresentazioni visive, ma diventano veri e propri veicoli di narrazione. Ogni fotografia è il risultato di un incontro vero, momenti condivisi che rivelano aspetti della vita quotidiana, emozioni e lotte di queste giovani madri. Non mi limito a scattare foto, mi immergo nelle loro vite cercando di catturare la complessità delle loro esperienze attraverso piccoli dettagli che spesso passano inosservati. Le immagini possono influenzare come il pubblico percepisce e interpreta le storie, creando un dialogo visivo che stimola riflessioni e domande. Se potenti possono rimanere con chi le guarda molto più a lungo di una frase letta. In questo modo estendono la narrazione nel tempo, rendendola viva e presente anche oltre il momento dell’incontro con l’opera.
Che importanza ha la simbologia, penso al giglio, nelle tue fotografie?
La simbologia mi permette di evocare sentimenti e storie interiori, dando allo spettatore l’opportunità di riflettere e interpretare il significato più profondo delle immagini. Nell’ambito della mia esposizione ho voluto che il pubblico potesse non solo vedere le fotografie, ma anche immergersi in questo mondo. Da qui è nata l’idea delle piccole carte, per esempio, ispirate ai santini: su un lato c’è una foto e sull’altro un estratto dal mio diario di progetto. Il giglio, poi, presente in molte foto, è simbolo di purezza ma anche di trasformazione e crescita, concetti che riflettono perfettamente il percorso delle giovani madri.
L’incontro reale con i tuoi soggetti dura nel tempo? Va oltre l’immagine?
È la base del mio lavoro. Non si tratta semplicemente di scattare fotografie, ma di instaurare una connessione autentica che spesso si prolunga nel tempo. Voglio comprendere davvero, e questa relazione diventa essenziale per dare sia profondità che verità alle immagini. È grazie a questo legame che le fotografie vanno oltre la superficie. Rimaniamo in contatto, continuiamo a dialogare, e questo legame influenza il mio lavoro. Questo rapporto continuo è essenziale anche per sfidare le rappresentazioni stereotipate e stigmatizzate. Solo attraverso una comprensione profonda posso cercare di restituire la realtà in modo rispettoso.
Istantanee da Casa Azul