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Il mondo da un certo angolo

La prima intervista di Nick Cave dopo dieci anni, Pedro Almodóvar senza la macchina da presa, i quotidiani e i cieli azzurri (e un altro mese di letture)

Nick Cave
(Keystone)
30 settembre 2024
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Un album bianco. Un album di Nick Cave ma luminoso. Proprio in un tempo in cui tutti tendiamo a pensieri funesti. L’ipotesi più sbrigativa è: se ci aspetta un futuro soltanto temibile – il che è da dimostrare e non è possibile –, Nick Cave già ne ha visti di peggiori, quasi ogni giorno della sua vita. Cosa può spaventarlo?

Era un mito fin dagli anni Ottanta per tutti i veri appassionati ed esperti di musica. Un nome che funziona – come ‘Franz Kafka’ – e che incarna lo spirito di chi lo indossa, dato che “cave” vuol dire “grotta”. Visitava gli inferi quotidianamente essendo “sempre stato attratto dalle forze distruttive” – angosce e terrori, paesaggi interiori spaventosi, aiutati a volte dagli esteriori, quel che può riassumersi nella parola “male’ – prima di concretarli nel primo disco, quasi mezzo secolo fa. Gli esperti dicono che nel buio più buio non mancavano raggi luminosi fin dall’inizio. Parlano di dannazione e redenzione. Mentre cambiava città, mogli o fidanzate e band, non smetteva le sue visite infere alle quali poteva dedicarsi ovunque. Dall’Australia a Berlino, a New York, Londra e Rio de Janeiro, fino alla Brighton in cui vive ora. Poi il male si fece presente in perdite irrimediabili, la morte di due figli. Arthur di quindici anni, nove anni fa; Jethro, il primogenito trentunenne, due anni fa. Nell’album che succede alla morte di Arthur, ‘Ghosteen’, le tracce di luce aumentano. E così avanti fino al recentissimo (30 agosto) ‘Wild God’ e alla sua veste bianca. Bianco anche il titolo, leggibile perché in rilievo.

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Da un certo angolo. ‘L’avvenire la spaventa?’, chiede Lelo Jimmy Batista a Nick Cave (per Libération). “Siamo inondati da informazioni catastrofiste. Spesso sono giustificate, ma non c’è altro. Se hai 15 o 20 anni, il mondo come lo vedi nei media, sulle reti sociali, appare un luogo così sistematicamente in rovina, a tutti i livelli, che è difficile guardare all’avvenire se non come una fuga verso la catastrofe (...) Il mondo è così, è incontestabile. Ma per la mia esperienza, malgrado tutto quello che mi è successo, posso affermare che il mondo, guardato da un certo angolo, prendendosi il tempo necessario, può rivelarsi un luogo meraviglioso. Quel che mi spaventa è che si finisca per dimenticarlo”.

Sono i nostri pensieri di ogni giorno. Una società non può vivere senza informazioni, che riferiscono una piccola parte di quel che succede nel mondo, né soprattutto senza l’approfondimento o lo studio delle informazioni. E studio vuol dire, partendo da là, poter arrivare al reportage e al commento illuminante, a una pagina di letteratura o filosofia. Perfino di poesia. Questo avviene nelle pagine dei grandi giornalisti. Cioè nel migliore dei casi, che bisogna andare a cercarsi. Uno sguardo sul mondo che, passando per la realtà, riesce ad andare oltre la realtà. Parole che toccano, insieme alla mente, la sfera delle emozioni. Quelle autentiche; perché spesso ciò che intendiamo per emozioni più appropriato sarebbe chiamarlo “nervi”. Una società dunque non può farne meno, su questo si gioca perfino la sua esistenza. Ma un individuo? Forse un individuo può farne a meno. I benefici del ridurre o eliminare mezzi di comunicazione nelle nostre giornate – radio e tv, giornali e tutti i “socials” contenuti nel nostro smartphone, difficili da enumerare – tali benefici li conosciamo per istinto, perché lo dicono gli esperti o per contrasto: se sono ridotto come sono ridotto, con un tale carico di notizie i cui tre quarti sono pura zavorra, magari tagliando tutti i cavi...

Potrebbe farsi per alcuni mesi o anni, per un decennio, dipende dall’età. E tra i molti vantaggi – incalcolabili vantaggi, nella mente e quindi nel corpo – penso ora a uno soltanto: ogni inconveniente o dramma ci troverebbe pronti e quasi vergini. Forti per venire in soccorso di noi stessi, quando occorre, delle persone che amiamo e della comunità in cui viviamo. E una scelta così radicale e individuale diventerebbe una scelta sociale.


Il nuovo album

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Dice ancora Nick Cave. Erano dieci anni, più o meno, che non concedeva interviste, sostiene Batista, ma è forse un calcolo pessimistico, con tutta la scontrosità del personaggio. Ha ripreso prima e aveva lasciato, in realtà, per una ragione insospettata. Botta e risposta di venti minuti da cui non può uscire nulla di buono per nessuno, questo non sopportava. Così ora esige, da chi gli chiede un’intervista, una vera conversazione almeno di un’ora. Dice Cave che a un certo punto ha cominciato a voler rispondere alle domande del pubblico, dopo i concerti. La cosa diventò una prassi. Il manager glielo sconsigliò. “Ormai bisogna stare molto attenti a quello che dici. Non è conveniente, può provocarti guai”. Dice Cave che “se ne frega delle conseguenze, il peggio mi è già successo”. Una volta anche lui pensava alla reazione degli altri alle sue azioni, alle sue parole. Dice che non può importagliene niente, ormai. E va avanti rispondendo a tutti. Un giornalista australiano sta lavorando alla sua biografia e ha pubblicato la parte relativa ai primi anni, ‘The Birthday Party’. Dice che ha provato più di una volta a distoglierlo, perché lo conosce. Ma non ci è riuscito. Per fortuna è uno lentissimo, ci vorranno secoli, dice, prima che arrivi agli anni più recenti. Della mia vita giovanile, non mi importa nulla ormai. Ma della morte di Jethro, di Arthur, se non ne parlo io, vorrei che non ne parlasse nessuno.

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Realtà vivibile. Si gioca fra reale e finzione nel libro di Almodóvar tradotto da poco in francese (‘Le Dernier Rêve’, Flammarion). Si fa quello che Almodóvar fa da oltre quarant’anni con immagini e parole, ma qui con le sole parole, confessando il debito con i racconti orali, quotidiani, della madre: “Quelle improvvisazioni costituivano una grande lezione per me (...), stabilivano la differenza tra finzione e realtà, e mostravano come la realtà abbia bisogno della finzione per essere più completa, più bella, più vivibile”. Salomé Kiner, autrice della recensione che sto leggendo su Le Temps, racconta che la collaboratrice del regista Lola Garcia ha salvato i promemoria e gli appunti, gli abbozzi di racconti o i racconti interi, tutte le mini-scritture che il regista è andando tracciando da quando aveva 18 anni e viveva in una Mancha ancora pienamente franchista, assolata e isolata, da meritarsi il nome di “far-west”. La madre gli regalò una Olivetti, dono sontuoso, e la Olivetti cominciò a generare idee, parole, storie. Sulle parole non si fonda anche il cinema, dopotutto, quasi per metà?

A diciotto anni aveva già sfiorato ciò che ha conquistato vent’anni dopo o forse quaranta. Miguel, in ‘Vita e morte di Miguel’, il suo primo racconto, “si abitua a non temere più quel che accade nella sua vita e impara ad accettarla com’è”. Questo assomiglia più all’ultimo Almodóvar, o al secondo o terzo, di quanto somigli al dirompente e irrefrenabile, allo sfrontato e gioioso narratore dei primi film (‘Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio’, ‘Che ho fatto io per meritarmi questo’). “Ma la saggezza non è saggia, a vent’anni”, ha scritto qualcuno.


Keystone
Pedro Almodóvar

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Il racconto di una vita. Alcuni quotidiani ritengono che una rubrica sui necrologi non possa mancare. Non s’intende la pagina di notizie sintetiche sulle scomparse, di solito cittadine, di persone note a pochi. S’intende un articolo più o meno quotidiano che riassume morte e vita di una persona nota a tutti o, in qualche caso, a pochi. Il racconto di una storia, a partire dalla notizia che quella storia si è conclusa. In realtà il racconto di una vita.

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Che cosa e perché. Al giornale ci si affezionava. Anche se poteva essere soppiantato, a un certo punto, da un altro giornale. Ora però voglio immaginare di fare mio un quotidiano che avrò sfogliato, materialmente, due volte.

Mi piace quando un quotidiano decide una struttura fissa di copertina, che poi varia di poco. Le variazioni allentano la rigidezza. Il Tagesspiegel ama presentarti una foto grande, larga quanto la pagina meno una colonna. Sotto la foto, un articolo a tre colonne che forse finisce là ma più spesso no. A volte si chiude nella quarta. Ma di solito la quarta è l’inizio di un altro articolo che si esaurisce lì in mille battute; o continua all’interno.

Nell’estrema destra e sopra la testata, qualche richiamo per i temi che si troveranno dentro. E solo adesso scopro la frase scritta sotto la testata: “Rerum cognoscere causas”. Un motto in cui è riassunto l’intero compito del giornalismo, che è lo stesso della filosofia. Come ho fatto a non vederlo prima? Conoscere le cause delle cose. Le cinque W anglosassoni – who, what, when, where, why – possono ridursi agevolmente a due. Cosa succede e perché. Nel “cosa” includi tutte le altre, tenendo a parte il “perché”. Bisogna dire che questo, la parte più decisiva e seducente della ricerca giornalistica, si fa molto meno di un tempo. Che ci basta esporre il “cosa”. (Atteggiamento che si accorda bene con la compulsione del “tempo reale”). Perché succede un tale fenomeno si deve provare a comprenderlo, e gli strumenti non mancano. Non possiamo sottrarci a moltiplicare ipotesi; che poi magari ridurremo. Perché è “fortunato chi ha potuto conoscere le cause delle cose”, dice Virgilio nel verso intero. Comprendere quel che ci accade dirada le incertezze e perfino le paure, anche se continuerà ad accaderci.

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Il cielo naturalmente. El País non lascia niente al caso in materia di illustrazioni, dallo storico El Roto al giovane Fernando del Hambre. Ben poco al caso anche in tutto il resto, salvo le solite, fisiologiche eccezioni. Del Hambre racchiude il suo disegno del 22 settembre in un quadrato perfetto. Sfondo, l’azzurro più azzurro che si possa immaginare – “azul de porcelana”, lo chiamava un poeta – ed è il cielo naturalmente. Al centro una grande colomba come l’avrebbe disegnata Mirò. Al centro della colomba un bersaglio, se non è la proiezione di un mirino. È la colomba della pace, con il rametto d’ulivo verde di un verde chiaro, chiarissimo, nel becco piccolo e giallo.


Keystone
Azzurro