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Convitti, non solo baracche

C’è anche un’emigrazione femminile i cui racconti, raccolti da Yvonne Pesenti Salazar sin dagli anni Ottanta, sono ora nel libro ‘Ragazze di convitto’

Dal Ticino, dal Grigioni italiano e dalle regioni più povere del Nord Italia
20 settembre 2024
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«È una vicenda lunga che coinvolge tante tematiche, che va in tante direzioni e al suo interno contiene molte storie». Le storie delle migliaia di giovani ragazze provenienti dal Ticino, dal Grigioni italiano e dal Nord Italia, emigrate verso la più industrializzata Svizzera centrale e orientale in cerca di lavoro nell’industria del tessile, settore in calo e affamato di manodopera femminile a basso costo. Le giovani, a volte giovanissime lavoratrici vivevano nei convitti costruiti dagli industriali accanto agli opifici, la gestione dei quali era affidata a congregazioni religiose cattoliche dalle finalità non completamente filantropiche e fonte d’isolamento dalla vita circostante.

Storica, già direttrice del Percento culturale Migros Ticino, già vicepresidente di Pro Helvetia e dal 2021 presidente degli Archivi Donne Ticino, Yvonne Pesenti Salazar affronta un fenomeno migratorio che si estende sull’arco di quasi cent’anni, per lungo tempo di sfondo di quello più generale, narrato al maschile. Lo fa in ‘Ragazze di convitto. Emigrazione femminile e convitti industriali in Svizzera’ (Dadò), punto d’arrivo della sua raccolta di testimonianze orali di donne (non più viventi) che nella prima metà del Novecento hanno trascorso la gioventù in convitto. Il libro viene presentato stasera alle 18.30 nell’Auditorium Monte Verità, con l’autrice in dialogo con Roberto Antonini e alla presenza di Marina Carobbio Guscetti, direttrice del Decs, e di Werner Weick regista di ‘Ragazze di convitto’, documentario Rsi del 1988 nel quale erano confluite le prime ricerche di Pesenti Salazar, che sarà proiettato al termine dell’incontro (l’entrata è libera).

Yvonne Pesenti Salazar, il suo libro ha una premessa: la storiografia ha sempre parlato di emigrazione al maschile e solo raramente al femminile, relegata quest’ultima alle storie delle donne rimaste nelle comunità d’origine di chi partiva, per quanto dall’Italia del dopoguerra arrivarono più donne sole che uomini soli…

I motivi sono diversi. La storia è stata raccontata per decenni al maschile, e la storia delle donne è una disciplina relativamente giovane, che risale a non prima degli anni Settanta. Un’altra ragione è che le vicende che coinvolgono le donne sono scarsamente documentate; nella storia, le donne sono spesso protagoniste invisibili e mute. Serve dunque far riemergere le fonti, come nel caso di questo libro che è in parte basato su fonti orali. Ma, per quanto i fenomeni migratori femminili siano meno documentati, le donne sono sempre emigrate. Il periodo dal 1945 in avanti è stato meglio studiato, non così la vicenda dei convitti, che è rimasta a lungo sommersa. Ho incontrato i convitti durante il mio dottorato, ne ho dato conto brevemente nel libro ‘Femminile plurale’, poi è arrivato il documentario di Werner Weick. Era il 1988: in quarant’anni non se n’è più parlato. Per tornare alla sua domanda: da un lato c’è la scarsità delle fonti, dall’altro si tratta di donne non celebri, che non hanno una traiettoria biografica particolare. Donne del popolo, più difficili da rintracciare negli archivi.

Sebbene il fenomeno dei convitti non sia una prerogativa solo svizzera, in Svizzera è durata più a lungo che altrove. Perché?

Sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento, in Svizzera ha funzionato assai bene il sodalizio tra padronato e Chiesa, due istanze che avevano finalità eterogenee ma un interesse convergente: controllare questa forza lavoro per trarne un profitto, ognuno il suo, materiale gli imprenditori, immateriale, ma non meno importante e significativo, la Chiesa. Inoltre, tra il 1890 e il 1914 la Svizzera è stato un Paese con un tasso di immigrati molto alto. Anche nel secondo dopoguerra è stato un polo d’attrazione importante. Tra questi immigrati c’erano tante ragazze giovani che corrispondevano alle esigenze dell’industria tessile svizzera, alla quale serviva la manodopera femminile per le sue caratteristiche intrinseche, come la resistenza alla monotonia e la destrezza nel maneggiare i fili, e perché a basso costo, perché notoriamente le donne costano di meno. Inoltre, una forza lavoro stanziale, per evitare un turnover che avrebbe causato la perdita di competenze acquisite. La Svizzera ha beneficiato di un notevole afflusso di ragazze, dal Nord Italia e dal Ticino, che venivano in strutture abbastanza confortevoli, forse anche perché meglio organizzate e più accoglienti rispetto a quelle di altre nazioni europee, come la Francia o la Germania. Alcune di queste donne mi hanno detto: “Mi sembrava di entrare al Grand Hotel”.

Nel libro lei dice che nessuna delle donne intervistate ha mai utilizzato la parola ‘emigrazione’, e che per loro il convitto non è stato nulla di più che un andare ‘in dént’, come hanno fatto tante loro coetanee. Allo stesso modo, i resoconti personali di questo andare ‘in dént’ non sono mai stati presi seriamente. Anche a questo si deve la scarsa informazione sul fenomeno?

Ho intervistato queste donne negli anni Ottanta. Erano già ultraottantenni, ed erano state in convitto tra il 1915 e il 1945. Non hanno mai avuto la consapevolezza di essere delle migranti. Andavano “in dént” con l’idea di andare a far qualcosa di utile per la famiglia. Partivano, ma per molte era una sorta di normalità; alcune insistevano con i genitori per andarsene così da avere finalmente un salario, altre nei convitti ci venivano mandate perché ribelli, o per finanziare gli studi dei fratelli maschi. Quando, anni dopo, queste donne hanno raccontato in famiglia la vita che hanno fatto nei convitti, non lo si credeva possibile. Per questo motivo, alcune di loro hanno smesso del tutto di raccontare. Siccome il lavoro femminile era poco considerato, o visto come accessorio rispetto a quello che si riteneva fosse il compito “naturale” della donna – quello di madre e casalinga – una vicenda come questa non faceva necessariamente parte delle esperienze ritenute fondanti. Ovviamente a torto.

Molte delle donne intervistate ritenevano di non avere fatto nulla di straordinario, e tale atteggiamento ha a che fare con la scarsa consapevolezza di sé, con la debole propensione a vedersi realizzate nel lavoro salariato, per dare invece la priorità ad altri ambiti e compiti. Io credo che questa poca attenzione nei confronti all’esperienza migratoria abbia a che fare con il suo essere parte dell’ambito extradomestico. Alcune donne, è vero, mi hanno detto che avere imparato un mestiere ha cambiato loro l’esistenza, altre mi hanno invece fatto lunghi racconti, in parte tristissimi, per poi chiedermi di non scrivere una sola riga. Queste testimonianze in un certo senso mancano. Ho incontrato anche le religiose: anche il loro vissuto è fondamentale. Una di loro mi ha scritto una lettera (ora conservata agli Archivi Donne Ticino), nella quale mi prega di non scrivere tutto quello che mi aveva detto…

Scrivendo del vecchio cotonificio di Linthal, nel Canton Glarona, e riportando gli sfoghi scritti sulle pareti interne della fabbrica, lontane dagli sguardi delle suore, lei parla di “deprivazione affettiva” derivante dai metodi applicati nel convitto, identici a quelli del convento. Guardando alla storia degli istituti religiosi, non pare una novità…

Certamente. La vita in convitto era terribilmente dura, la disciplina ferrea e le ragazze vivevano come recluse. Ma non sarebbe corretto guardare al passato da un punto di vista dell’oggi. Questa è una pagina di storia molto triste, che ha a che fare con temi come deprivazione affettiva, oppressione, sfruttamento. In convitto i codici valoriali e le modalità su cui si basava allora l’educazione cattolica delle ragazze venivano applicati con un rigore estremo e venivano così esasperati, ma in una ricerca storica occorre sempre contestualizzare. Intendo dire ad esempio che anche nei collegi per signorine di buona famiglia, che i promotori dei convitti citano sempre a mo’ di paragone, nei quali si pagava per entrare, veniva impartita la medesima educazione. Lo storico e filosofo Michel Foucault ha mostrato come, dall’Ottocento in poi, si creino diverse istituzioni di internamento, basate in sostanza sul modello del convento: in questi istituti il tempo è rigidamente scansionato, il controllo sugli individui totale, esattamente come in convento. Anche in convitto il tempo e il lavoro sono regolamentati, le relazioni tra gli individui sono improntate alla disciplina, all’obbedienza, al silenzio, alla preghiera. È un modello che funziona benissimo. Del resto, è anche l’unico modello di conduzione che le religiose conoscono, e quindi lo applicano in modo intransigente. Ma il loro non è affatto un compito semplice, per cui alle prime difficoltà rispondono nel solo modo che conoscono: con la repressione. Ripeto, tutto va sempre contestualizzato, e anche le religiose sono figure complesse. Dietro gli stereotipi ci sono le persone, e queste non sono tutte uguali. Insomma, bisogna comunque stare attenti a non generalizzare.

Le motivazioni delle donne che migravano non erano soltanto economiche, alcune inseguivano l’indipendenza, ritrovandosi più ‘in prigione’ che a casa propria. Allo stesso modo, l’emigrazione maschile è un momento di condivisione, apertura, di conquista di diritti, e quella femminile è una storia di isolamento…

Anche l’emigrazione, così come tanti altri fenomeni sociali, deve essere studiata in un’ottica di genere. È importante. È vero, emigrazione spesso significa apertura, conoscenza, confronto con nuove realtà, emancipazione individuale ed economica. Per quel che riguarda il genere maschile è quasi sempre così. Per quel che riguarda il genere femminile, l’emigrazione può anche tramutarsi nel contrario di tutto ciò. Se va bene, coincide con una certa indipendenza, in primo luogo economica, con una maggiore consapevolezza di sé, con maggiore libertà rispetto al contesto di provenienza e con la scoperta di nuovi orizzonti. Ma in determinati casi, soprattutto se le donne che emigrano sono sotto la tutela di un parente di sesso maschile, può diventare sinonimo di regressione, acuendo la dipendenza e i meccanismi di controllo sociale, peggiorando la condizione di subalternità già presente nel luogo d’origine e innescando di fatto un processo di involuzione.

Per il controllo pervasivo cui dovevano sottostare, per il salario che queste operaie non vedevano mai, il convitto si può leggere come un’esperienza involutiva. Per molte infatti la permanenza in convitto ha comportato un’enorme sofferenza ed è stata all’origine di problemi relazionali, soprattutto nei confronti dell’altro sesso. Altre invece sono riuscite a trarne anche un beneficio, ad esempio quelle che sono tornate a emigrare, stavolta in modo autonomo, o quelle che hanno capito i vantaggi che derivano dal fatto di avere un’attività professionale.


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Yvonne Pesenti Salazar

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