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C’era una volta la Monteforno, tra acciaio e umanità

Un libro racconta le storie di chi ha vissuto e lavorato all'acciaieria di Bodio, chiusa trent'anni fa. Ne parliamo con l'autrice Sara Rossi Guidicelli

12 settembre 2024
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È una storia che inizia nel 1946, quando l’avvocato Aldo Alliata decide che i tondini per l’edilizia sarebbe meglio farli in Svizzera, piuttosto che importarli – e che si conclude nel 1994, quando l’acciaieria chiude definitivamente l’attività. È la storia della Monteforno di Bodio, delle persone che vi hanno lavorato, delle loro aspirazioni e delle loro lotte, che Sara Rossi Guidicelli racconta nelle centotrenta pagine di ‘Quaderno della Monteforno’ pubblicato dall’Istituto editoriale ticinese.

Il volume sarà presentato ufficialmente, nell’ambito del festival Babel, sabato 14 settembre alle 10 al Teatro Sociale di Bellinzona, durante una tavola rotonda su letteratura e impegno curata da Moby Dick di Rete Due alla quale parteciperanno anche Massimo Gezzi e Lorenzo Flabbi.

Sara Rossi, perché ‘Quaderno’?

Il progetto è partito con l’idea di portare la storia della Monteforno a teatro, scrivendo un monologo – e il teatro non è una cosa semplice, devi trovare un produttore, un regista, degli attori, far partire una macchina abbastanza complessa. Ho quindi pensato, mentre facevo le mie ricerche, di raccogliere materiale che potesse essere pubblicato. Di girare con un quaderno, appunto, nel quale tenere tutte quelle cose che poi, quando fai uno spettacolo, devi tagliare, lasciando magari solo una frase di interviste e incontri.

Alla fine lo spettacolo si farà?

Dovremmo realizzarlo l’anno prossimo, ma non posso dare troppi dettagli perché il progetto non è ancora sicuro al 100 per cento ma diciamo che ci siamo. Intanto per non perdere l’occasione del trentesimo dalla chiusura della Monteforno, abbiamo deciso con Casagrande di pubblicare adesso il mio “quaderno degli appunti”, con il materiale raccolto e sistemato.

Nel libro troviamo, insieme ai tuoi testi, anche foto, documenti, lettere…

Sì, ho voluto fare molte ricerche perché sentivo che bisognava studiare molto per capire cosa raccontare e come raccontarlo. Sono andata all’Archivio di Stato dove ho trovato i documenti riprodotti nel libro, insieme ovviamente a molti altri, poi ho incontrato diverse persone, fatto interviste, letto libri, facendo anche alcune connessioni con realtà apparentemente molto diverse.

Perché dedicare tutte queste energie a una acciaieria che ha chiuso, come detto, trent’anni fa? In pratica una intera generazione è vissuta senza Monteforno, possiamo considerarla un capitolo chiuso.

Quella della Monteforno è una storia che mi sembra insegnare molte cose. Alcuni anni fa il circolo culturale Coghinas di Bodio mi ha chiesto di scrivere un libretto per i loro quarant’anni: il circolo era nato all’interno della comunità sarda che lavorava alla Monteforno, ma sono ormai trent’anni che è slegato da quella realtà proseguendo le sue attività. Quando ho incontrato le persone del circolo – i fondatori, i loro figli e in alcuni casi addirittura i nipoti – mi aspettavo che mi avrebbero parlato soprattutto del circolo… invece hanno parlato della Monteforno, come se l’acciaieria avesse chiuso ieri.

Per molti non è quindi un capitolo chiuso, ma una realtà ancora viva. È vero, è una storia del Novecento, ma a parte il fatto che io sono una “figlia del Novecento”, mi sembra che ci siano degli elementi universali o comunque costanti.

Ad esempio?

Il tema dell’immigrazione: gli operai erano per la stragrande maggioranza italiani o comunque stranieri perché erano pochissimi i ticinesi che andavano a lavorare ai forni. Queste persone mi hanno raccontato la fatica per non essere non dicono ringraziati, ma semplicemente rispettati. Iniziando proprio con l’arrivo a Chiasso, quando in una stanza umida ti umiliano facendoti spogliare. Sono cose che sappiamo, ma bisogna ricordarsele e mi stupisce sempre vedere come non impariamo mai perché la stessa dinamica la vediamo ancora oggi.

E poi c’è tutto il discorso sul lavoro: oggi ascoltare queste storie di fabbriche, di realtà lavorative difficili, precarie, rischiose, senza tutele, storie di lotte operaie, di sindacalizzazione che è arrivata in Ticino grazie a questi operai… ecco credo che ascoltare queste storie sia importante anche se alla fine qualche battaglia è stata vinta, con stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro, ma alla fine la guerra l’hai persa.

Il libro racconta quello che è stato e che ha lasciato la Monteforno, l’indotto non economico ma culturale e sociale.

Sì, a me interessa la storia umana, il punto di vista delle persone: per questo non ho fatto un libro di storia ma un racconto. Certo come detto ho cercato documenti negli archivi, ho letto libri, ma è stato davvero importante incontrare le persone, ascoltare quello che queste persone mi hanno raccontato della Monteforno che era una fabbrica ma è diventata come una casa: l’hanno vissuta come loro e alla fine ci tenevano più loro dei dirigenti. Con la chiusura alcuni sono ripartiti, ma molti sono rimasti e adesso loro, i loro figli e i figli dei loro figli sono leventinesi.

Non è un libro di storia ma un racconto. E nei racconti di solito ci sono un protagonista e un antagonista. C’è un cattivo, in questa storia?

È difficile. Potremmo parlare della direzione in cui va il progresso, in cui va quello che chiamiamo progresso. Quando la linea del tempo prende una direzione che diciamo “non è tanto buona”, quello che si può fare è provare a fare resistenza. A resistere di fronte a un mondo del lavoro dove contano i consigli di amministrazione che non sai più dove sono, aziende date in mano a manager che non hanno a cuore l’umano, che non hanno a cuore il territorio, che non hanno a cuore la qualità ma pensano soltanto al profitto. Ecco, penso che per me “il cattivo” di questa storia, se vogliamo usare queste categorie semplificate, sia proprio questo modo di pensare.

Rimane comunque del mistero, in questa storia: perché la Monteforno è stata chiusa? Non è il mio compito trovare la risposta a questa domanda, ma è stato interessante raccogliere alcune ipotesi e mi sono fatta l’idea che sia stata una concomitanza di elementi: sarebbe quasi bello se la causa fosse stata una sola, perché eliminata quella la storia potrebbe continuare…

Questo quaderno raccoglie storie e riflessioni che volevi preservare. Ce n’è una alla quale tieni particolarmente?

Difficile scegliere, ma penso la frase con cui si apre uno dei primi capitoli: “Mano a mano che studiavo per conoscere la Monteforno mi accorgevo di una cosa: la Svizzera, l’hanno costruita gli italiani”. È una cosa che in qualche modo la sai già, ma quando ti metti a leggere di chi lavorava per costruire le strade, le gallerie, le dighe, l’autostrada, la ferrovia, le fabbriche… vuoi esprimere in modo forte che tutto quello che fa del nostro Paese quello che è, così comodo, ricco, bello, ha dietro queste persone che, in massa, sono arrivate dall’Italia e da altri Paesi.

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