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La vita in una lingua straniera

Detto col massimo rispetto per la vicenda, la lingua di strada di ‘Storia di mia vita’ di Janek Gorczyca è una naturalezza che non c’è

Caso letterario in Italia
12 settembre 2024
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Janek Gorczyca è polacco, nato nel 1962 in un Paese ancora lacerato dalla guerra e oppresso dalla cappa del blocco sovietico. Come militare viene addirittura mandato in Afghanistan, da cui torna per partecipare, negli anni, alla lotta politica di Solidarnosc finché non decide di lasciare la sua terra per emigrare. Destinazione Finlandia, ma approdo da tutt’altra parte: a Roma. Dal 1992, dunque da più di 30 anni, Gorczyca vive in Italia senza fissa dimora. È un “senzatetto”, di quelli chiamati “barboni”, dorme per strada o davanti ai negozi chiusi. Quando capita trova rifugio in case occupate e si arrangia con lavoretti (in nero) come fabbro. Con la compagna, che lo affianca per molti anni, condivide un’esistenza ai margini, spesso in balia di malattie e dell’endemica propensione all’eccessivo uso di alcolici che condurrà la donna alla morte. Un’esistenza spesso al limite del sopportabile che Janek ha deciso, forse anche terapeuticamente, di raccontare in un libro che da più parti è stato definito il caso letterario italiano della stagione.

Edito da Sellerio, si intitola ‘Storia di mia vita’ e sin da queste prima parole, nella difficoltà di articolare le preposizioni, si propone come un testo molto particolare perché offre questa terribile parabola (auto) biografica in una lingua imparata per strada, nei colloqui con interlocutori vari (polizia, medici, infermieri, altri barboni italofoni) che costellano un percorso vissuto nell’ombra di una condizione “altra”, “straniera” ed emarginata che Janek ci consegna senza cercare alibi o scorciatoie, senza abbellimenti, con grande dignità. Lo fa, appunto in una lingua, se vogliamo dire così, “artificiale”, traducendo eventi e sentimenti che ovviamente avrà vissuto e pensato nella sua lingua materna, ma raccontandoli e scrivendoli in quella “matrigna” acquisita sui marciapiedi. Una lingua semplice, con un vaghissimo sapore romanesco, che fa del libro una sorta di esemplare documento socio-antropologico della condizione di vita di tanti emarginati che pullulano nelle grandi città di tutto il mondo. Una lingua “basica” per parlare di una condizione di vita ridotta ai minimi termini, confrontata non di rado con il problema della sopravvivenza.

Caso letterario?

Ma ecco che proprio questa scelta (che è anche e forse soprattutto editoriale), per quanto legittima e significativa, finisce per non convincere appieno. Nel totale rispetto per la vicenda di Janek, della sua “verità”, il libro appare infine, letterariamente parlando, artificioso, poiché vi si intravede, linguisticamente e stilisticamente parlando, la mano omogeneizzante di un editing che, paradossalmente, inventa una naturalezza che non c’è. Un “non stile” che dà vita a un romanzo che si limita alla pura documentazione di fatti quotidiani (anche scabrosi) senza aggiungervi letterariamente nulla. Politicamente correttissimo, lodevole nelle intenzioni e nei fatti, importante nel dar vita e voce (e dignità) all’emarginazione sociale: tutto giusto, tutto sacrosanto. Ma la letteratura che si voglia tale e di alto profilo, dovrebbe anche essere qualcosa di più o d’altro.

Prendiamo un solo esempio, uno dei romanzi scritti in una lingua acquisita lontana dalla propria terra, dall’autore, anzi dall’autrice: pensiamo ad Agota Kristof (1935-2011), fuggita dall’Ungheria, riparata in Svizzera a Neuchâtel, dove scrive, in francese, un libro straordinario: ‘Le grand cahier’ (tradotto in italiano prima da Guanda con ‘Quello che resta’ e poi, da Einaudi con ‘Il grande quaderno’). Kristof racconta della propria terribile esperienza in patria inventando due gemelli che annotano su un quaderno, gli orrori che li circondano, in cui sono immersi quotidianamente, con un linguaggio scarno, essenziale (scolastico, appunto, com’era il francese dell’autrice) che sa però diventare uno stile, inconfondibile, della narrativa di Kristof, nel dar conto della tragedia della guerra, dell’esilio, dell’orrore dei totalitarismi. E forse qui sta la differenza, fra un’opera di respiro europeo e di eccezionale potenza letteraria, e un documento biografico che, nel panorama italiano di oggi, riesce a essere definito “caso letterario”.

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