Lo scrittore cileno, autore di ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’, ha aperto il festival Endorfine a Lugano
Lo scrittore cileno Benjamìn Labatut è solitamente definito “autore visionario e metafisico”. Chi ha letto ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ (tradotto in italiano nel 2021 da Adelphi) sa che non è un’esagerazione retorica. Labatut mescola con abilità – ovvero disorientando il lettore – generi e stili letterari in un misto di narrativa di finzione, saggistica e biografia storica, il tutto intorno alla vita di alcuni scienziati quali Albert Einstein, Karl Schwarzschild, Erwin Schrödinger e Werner Heisenberg.
Anche ‘Maniac’, pubblicato l’anno scorso in italiano sempre da Adelphi, ruota intorno alla figura di uno scienziato: John von Neumann, una delle menti più acute del Novecento per i suoi contributi in numerose discipline. Tra cui l’informatica: il titolo del libro di Labatut si riferisce infatti al Mathematical Analyzer Numerical Integrator and Automatic Computer Model (MANIAC, appunto) realizzato nei laboratori di Los Alamos partendo dalle ricerche di von Neumann, protagonista del libro insieme al fisico Paul Ehrenfest e a Lee Sedol, campione mondiale di go sconfitto da un’intelligenza artificiale – e proprio di intelligenza artificiale Labatut ha parlato ieri, 13 settembre, al Boschetto Ciani di Lugano, aprendo l’edizione 2024 di Endorfine (www.endorfine.ch).
Benjamìn Labatut, uno dei problemi delle intelligenze artificiali generative è che si inventano cose, mescolando realtà e finzione. Aspetto questo che caratterizza anche i suoi libri…
L’“inganno” della narrativa è diverso dall’“inganno” della menzogna. La letteratura e l’arte lavorano con nuclei concentrati di significato, non con i semplici fatti della realtà; la loro verità è simile a quella dei miti che sono una sostanza strana e molto preziosa. La verità della letteratura è come quella della mitologia: cerca di mostrare l’invisibile, di intrappolare i fatti del mondo in una rete di significato e di riportare alla memoria gli dèi. L’intelligenza letteraria va ben oltre il semplice lavoro imitativo o generativo. È un’arte dell’anima, un linguaggio che cerca di allargare il campo del possibile, un tentativo di andare oltre il binario e il razionale. I libri servono a intrappolare gli spiriti e a inoculare la mente umana con la materia oscura. Se non hanno questo effetto, sono poco più che inchiostro e carta.
In ‘Maniac’ ci troviamo di fronte a tre vite: quella di von Neumann, quella di Paul Ehrenfest e quella di Lee Sedol. Perché ha scelto queste tre storie?
Von Neumann è l’esempio storico più preciso di ciò che potremmo considerare “una superintelligenza” e analizzare la sua vita e la sua eredità mi sembra un buon modo per pensare al presente, perché prima o poi potremmo dover vivere fianco a fianco con esseri simili a quello che lui era per i suoi contemporanei. Ehrenfest era un uomo appassionato che voleva comprendere la realtà nel modo più profondo possibile, ma che è caduto nella disperazione di fronte a nuove forme di razionalità – scientifica, matematica, politica – che considerava inumane. Lee Sedol non è solo un campione di go: è un artista, un uomo che ha voluto trovare una nuova bellezza sulla scacchiera di un gioco la cui complessità è tale da essere sempre stato considerato un modello della complessità dell’universo. Quello che ha vissuto quando si è scontrato con il programma AlphaGo è qualcosa che probabilmente passerà alla storia universale: il momento in cui una delle nostre tecnologie, una delle figlie dell’umanità, è riuscita a vedere qualcosa del mondo che per noi era inconcepibile.
‘Maniac’ parla della crisi della ragione. Ma qual è l’alternativa? Non sarebbe molto peggio rinunciare alla ragione?
Non possiamo rinunciare né alla ragione né alla follia né al delirio né al sogno né all’incubo. La ragione ha i suoi demoni, proietta ombre specifiche, ci mostra nuovi abissi e prospettive illuminate; uno dei problemi del nostro modo di pensare è non capire quali sono i limiti di ogni punto di vista. La ragione ha il suo ambito, il suo regno, la sua funzione e la sua apoteosi. Ma dobbiamo saperla combinare e mettere in dialogo con tutte le altre facoltà umane.
In questi quattro anni ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ è stato ampiamente letto e discusso. C’è stata qualche critica che le è sembrata particolarmente pertinente?
Rispondere a questa domanda significherebbe cadere nel masochismo. È come quei colloqui di lavoro in cui ti chiedono qual è il tuo peggior difetto: e tu rispondi qualsiasi cosa stupida, perché la verità, l’indicibile verità, è che tutti abbiamo l’orrore dentro di noi, tutti abbiamo abbastanza difetti da andare dritti all’inferno e una o due virtù che ci salvano dal cadere troppo in basso. Mi sembrerebbe meschino criticare ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ perché, pur vedendo tutti i suoi difetti, è qualcosa che è scaturito dal mio inconscio e ha cambiato la mia vita. Quindi gli devo una quota di silenzio.