laR+ L’intervista

Con l’andatura di Yasmina Mélaouah

‘Tradurre è arrivare in vetta con il proprio passo’. La traduttrice di Pennac e di altri giganti sabato 14 settembre al Sociale con Laurent Mauvignier

Premio delle Giornate della Traduzione nel 2007, Premio Bodini-Casa delle traduzioni alla carriera nel 2018
12 settembre 2024
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Esiste esclusività più grande che leggere un nuovo libro prima di tutti? Un libro che nemmeno è stato stampato? Solo una traduttrice può. «Sì, è bellissimo, lo dico da lettrice, ma quando arrivano i piccoli momenti di sconforto che tradurre porta con sé, la solitudine, la ripetitività del mestiere, la frustrazione per i compensi bassi, noia e stanchezza, è altrettanto bello sapere di poter trasferire al lettore qualcosa che nessuno ha ancora letto».

Da oltre trent’anni Yasmina Mélaouah traduce narrativa francese e insegna traduzione letteraria. È la ‘voce italiana’ di Daniel Pennac, Mathias Énard, Alain-Fournier, Raymond Radiguet, Colette, Patrick Chamoiseau, Laurent Mauvignier, Jean Genet. Nel 2017 ha ritradotto ‘La Peste’ di Albert Camus, quest’anno ha fatto lo stesso con ‘L’educazione sentimentale’ di Gustave Flaubert e ‘Jean Santeuil’ di Marcel Proust, primo atto di un progetto di traduzione di quest’ultimo per i Meridiani Mondadori. Mélaouah sarà al Sociale di Bellinzona sabato alle 16 insieme a Mauvignier, del quale ha tradotto gli ultimi cinque romanzi. E da oggi, primo giorno di ‘Babel France’, e fino a domenica, terrà il workshop di traduzione letteraria insieme all’omologa Maurizia Balmelli.

Yasmina Mélaouah, nel suo caso la traduzione è stata vocazione, innamoramento, folgorazione?

Vengo da un percorso universitario di letteratura francese contemporanea, finito il quale ho voluto fortemente continuare a stare con i libri, a frequentare la letteratura. Non ho mai pensato alla traduzione, quella è capitata grazie a una editor di Bompiani venuta a propormi alcune letture e una traduzione. È cominciata così, e non mi è mai dispiaciuto.

La voglia di scrivere, per stare ancor più con i libri, si è mai fatta sentire?

Di libri che ancora voglio leggere e studiare ne sono stati scritti già tanti. Mi sembra inoltre che mettere le mani in autori come Camus, o di recente Proust, questo mio ‘frequentare’ i giganti della letteratura sia un tenere l’asticella sempre altissima. La sensazione è anche che si pubblichi davvero tanto e di tutto, cosa che mi fa diventare sempre più esigente: ci mancherebbe che aggiungessi del mio al resto! (ride, ndr)

In questo suo stare dentro i libri esiste la deformazione professionale per la quale, nel leggere un’opera tradotta da altri, la sua attenzione non sia più sul libro?

Sì, ed è un disastro. Non perché voglia fare la maestrina, ma non riesco a non fare attenzione alla traduzione, anche da lingue che non conosco. Non posso ignorare certi automatismi e basta un avverbio messo male a farmi perdere la sospensione dell’incredulità. Ma la ‘deformazione’ riguarda anche me stessa, sempre lì a mettere a posto le cose: può succedere che leggendo le traduzioni degli altri compaia la me al lavoro. Quest’estate c’era una bimba di dieci anni immersa in un libro, seduta sotto un albero: ho visto in quel modo di leggere la sua totale identificazione con la storia, quella specie d’innocenza che chi si dovesse un giorno ritrovare a che fare con l’editoria perderà.

Evaderei subito il capitolo ‘La traduttrice di Pennac’, perché di francesi ne ha tradotti più d’uno. Sente la definizione ingombrante?

Prima di tutto, Daniel Pennac è una persona meravigliosa e non sono più in grado di dare giudizi sulla qualità dei suoi libri. È generoso e coerente con quello che dice su temi dei quali in passato era impensabile parlare. Quello dei diritti d’autore per i traduttori, per esempio. Lo ricordo sempre: un giorno mi chiese se li avessi sulle sue opere, io gli dissi che in Italia nemmeno esistevano; per anni me li ha versati di tasca sua. Pennac è una di quelle persone la cui condotta morale pubblica ricade su quella privata, qualità immensa in un mondo in cui di fronte alla platea di un festival si fa tutti la parte dei democratici e dei generosi, e una volta tornati a casa si fa il braccino corto con la traduttrice. Credo anche che il successo dei suoi libri, unito al fatto che non abbia mai mancato di farmi i complimenti, abbia aiutato il pubblico italiano più generalista a capire che i libri stranieri non si autotraducono. Avercene, di questi ingombri.

Tra gli scrittori da lei tradotti ha giudicato Alain Fournier il più difficile. Tecnicamente, dove sta la difficoltà del tradurre?

Sta nel cercare di mantenere la fisionomia della voce di un autore, con tutte le sue ‘stranezze’, i suoi inciampi, i tratti peculiari di stile, senza mai appiattirli. Molte volte, traducendo, è come se si attivasse una specie di autocensura per la quale qualsiasi tratto peculiare di un autore viene ‘normalizzato’, come diciamo in gergo, per il timore che la stranezza in questione possa essere attribuita all’incapacità di chi traduce. Su Flaubert per esempio, specialmente ne ‘L’éducation sentimentale’, alcune vecchie traduzioni avevano applicato a una sorta di cosmesi, al fine di renderlo più ‘normale’; io invece ho voluto mantenere l’elemento di fatica. ‘La festa di compleanno’ di Laurent Mauvignet per esempio, che presenterò a Babel, ha una pagina con frasi che paiono spirali. L’autore chiede al lettore una fatica e io non posso alleggerirla. È anche una questione di non infantilizzare chi legge, come se gli si debba offrire un omogeneizzato che gli risparmi il dover masticare.

Pennac e Mauvigner sono ancora interpellabili per un chiarimento, Flaubert e Camus difficilmente oggi risponderebbero al telefono: come si traducono i non più viventi?

Mi verrebbe da rispondere con un luogo: Lourdes (ride, ndr). Fuor di battuta, trascorro molto tempo a studiare i giganti, a leggerli e a leggere quanto su di loro è stato scritto; questo studio va poi assimilato e messo da parte in attesa di quello che, nel mio caso, è il confronto, un faccia a faccia tra me e la pagina, da compiersi in una situazione di ascolto attento e un po’ passivo. Non leggo le traduzioni precedenti perché non mi portano a nulla, so che esistono alcuni ‘spregiudicati’ che fanno un collage delle edizioni preesistenti, scelgono le soluzioni migliori e le mettono insieme. Per arrivare a destinazione ognuno ha la sua andatura, più o meno veloce; io arrivo in vetta con il mio passo, con il ritmo del mio respiro.

‘Scegliere le soluzioni migliori e metterle insieme’ è cosa che riesce bene all’Intelligenza artificiale (Ia). Pensa al fatto che alla macchina si possa chiedere ‘Traduci alla maniera di Yasmina Mélaouah’?

Fino a un paio di mesi fa credevo che la cosa non mi riguardasse, e invece lo scrittore Alessandro Piperno, che dirige i Meridiani Mondadori, qualche giorno fa ha chiesto a ChatGPT di scrivere un testo alla maniera di Alessandro Piperno. Ho letto quella pagina e al di là di alcune forme lessicali, l’andamento, il ritmo e i temi svolti potevano essere una pagina di Piperno. Io che mi ero sempre detta che l’Ia avrebbe, al massimo, rubato il lavoro a chi traduce le guide turistiche, ora la penso diversamente. Parlo da insegnante: si discute molto in Francia di come le scuole di traduzione formeranno più che altro al cosiddetto post editing, cioè a come sistemare traduzioni fatte dalla macchina. Parlando con amici delle case editrici, per quel che riguarda la traduzione letteraria sento ancora l’emergenza abbastanza lontana. Mi parlano di cinque anni. La cosa fa paura, ma ci riguarda tutti.

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