Pubblichiamo un estratto da ‘Hotel Bella Speranza’ (Casagrande) di Michael Fehr, tra gli ospiti di Babel, dal 12 al 15 settembre a Bellinzona
In un piccolo castello vive, ancora con la madre, un figlio già adulto. Al piano terra c’è una sala le cui pareti sono interamente rivestite di canne d’organo, dalle più corte alle più lunghe; in una stanzetta adiacente ci sono i comandi che azionano l’organo, mentre dall’altro lato della sala c’è una cucina rustica, piccola e lustra. Al piano superiore, che per via delle canne d’organo più alte è posto a una certa altezza rispetto al piano terra, ci sono alcune camerette. E questo è quanto, il castello è tutto qui.
Al piano terra, nella cameretta dove c’è il congegno che aziona l’organo, siede curvo alla tastiera il figlio, le spalle cascanti, così afflitto che la testa quasi gli sfiora le mani mentre le dita corrono sulla tastiera. Studia, prova e canta anche. La porta è chiusa. Nella stanzetta il suono dell’organo è ancora alto e possente. Rispetto al tuonare e mugghiare delle canne – acute o sorde o sconquassanti – che si sente nella sala accanto, nella cameretta la voce che canta non è ancora completamente travolta dal suono dell’organo.
Il figlio preme sui tasti e canta:
«This is the movement of shadows I’m feeling».
Sta lavorando a una canzone piena di sentimento, ma non gli riesce di arrivare in fondo. Non riesce a trovare un finale, ma una bella canzone, maledizione, deve avere anche un bel finale. Con una sola mano picchia due volte sulla tastiera. L’organo risponde ringhiando due volte.
Il figlio si alza di scatto dallo sgabello, spalanca la porta, corre in sala, raggiunge il camino che – essendo le pareti interamente occupate dalle canne d’organo – è stato costruito a una certa distanza dai muri e ha per canna fumaria una colonna, strappa via dal camino un ciocco mezzo carbonizzato, corre lungo le pareti e, con il braccio teso e impugnando il ciocco di legno, batte sulle colonne di canne d’organo e intanto grida:
«Al diavolo, per la miseria, maledizione!»
D’un tratto nella sala compare la madre:
«Ma che ti prende?»
Il figlio si ferma, scaraventa a terra il pezzo di legno:
«Niente, non mi riesce niente, faccio schifo».
La madre si dirige verso la cucina:
«Vieni con me!»
Il figlio la segue.
In cucina la madre versa del vino di Borgogna in due panciuti calici di cristallo, riempiendoli fino all’orlo.
«Ora ci facciamo un goccetto di Borgogna. Dobbiamo parlare seriamente».
La madre porge un calice al figlio. Bevono entrambi.
Il figlio: «E di che cosa dovremmo parlare?»
La madre: «Io così non riesco a scrivere».
Il figlio: «E che cosa vuoi scrivere?»
La madre gli mostra alcune pagine:
«Ecco qua».
Il figlio guarda le pagine, strizza gli occhi e sembra perplesso.
«Non riesco a leggerle. E chi ci riuscirebbe, sono scritte in una grafia illeggibile, tutta scarabocchi tremolanti».
Il figlio restituisce le pagine alla madre e la guarda con più attenzione.
«Ma poi cosa ti salta in mente, sono giorni che vai in giro con la faccia tutta nera di carbone».
La madre beve un sorso di Borgogna, posa il calice, si passa l’indice sulla fronte, mostra al figlio la punta del dito annerita dal carbone.
«Sto scrivendo delle lettere, a mano. Voglio stare in camera mia al piano di sopra e scrivere delle lettere a mano, e quando dico a mano, intendo proprio con la mano. Voglio scrivere lettere poetiche con un dito, proprio con il mio dito. Ma se al piano terra l’organo tuona, sbuffa e strepita senza sosta, quella povera, adorata stanzetta tutta mia al piano superiore di questo castello tutto mio è scossa dai tremiti di quel bestione, e io tremo sulla mia adorata sedia e trema il tavolo e trema la carta e il risultato è che le mie lettere sono del tutto illeggibili. Ma io voglio staccare le estremità carbonizzate dei ciocchi di legno che stanno nel camino e sbriciolarmele tra le mani e sputarci sopra, e con la saliva e il carbone tingermi la faccia di nero. Di sopra, seduta al mio adorato tavolo, mi lecco l’indice e passandomelo sulla faccia annerita lo tingo di nero e scrivo lettere. Non sono più disposta a sopportare che suoni l’organo, il rumore che fai intralcia le mie necessità e i miei progetti».
Il figlio: «Ma finora non ti ha mai dato fastidio. Se a te disturba che io suoni l’organo, a me potrebbe disturbare la tua faccia nera».
La madre: «Cosa stai dicendo, non è mica paragonabile. La mia faccia non si è obbligati a guardarla, mentre l’organo risuona dappertutto in questo povero castello».
Il figlio: «Ma adesso che sei qui davanti a me, io la tua faccia la vedo».
La madre: «Ma io no, e poi è la mia faccia e io la voglio dipinta di nero e voglio scrivere lettere a mano, e non sopporto più il fracasso che fai. Da oggi chiuderò a chiave la stanza con i comandi dell’organo, e tu non suonerai più l’organo ma il pianoforte a coda».
La madre beve un sorso di Borgogna, poi dalla cucina raggiunge rapida la sala, la attraversa e chiude la porta sull’altro lato, gira due volte la chiave nella serratura e sfila la chiave.
Dalla cucina si leva stridulo un piagnucolio. Il figlio, mortificato, striscia dalla cucina alla sala. Ogni movimento gli costa uno sforzo immenso e doloroso.
«Ma io non voglio suonare il pianoforte a coda, per favore non farmi suonare il pianoforte. Così mi umili e io soffro, soffro terribilmente».
Il figlio piange inconsolabile e striscia per la sala.
«Non voglio suonare il pianoforte, è brutto e suona come un organo degenere».
La madre si avvicina al camino, si inginocchia, allunga la mano fin dentro il focolare, sbriciola dei pezzi di legno carbonizzato, si sputa sui palmi delle mani e si impiastriccia la faccia per renderla nera come il carbone.
«Così va bene. Dovrebbe venirne fuori un nero da far paura, andrò subito di sopra a scrivere qualche lettera stupenda».
Il figlio: «Sei cattiva, mammina».
La madre: «Finiscila di piagnucolare, ti ho fatto portare questo bellissimo pianoforte».
Al centro della sala c’è un pianoforte a coda nero, coperto quasi per intero da un vecchio e consunto sipario color borgogna, e sopra i pesanti drappeggi del sipario sono appoggiati dei candelabri, grazie ai quali il pianoforte si inserisce armoniosamente e senza dare nell’occhio nella cornice della sala, pur trovandosi più o meno al centro.
La madre accende le candele e si siede al pianoforte.
Il figlio, disteso da qualche parte sul pavimento della sala, è spossato, sfinito.
La madre comincia a suonare.
«Quella a cui stai lavorando è una splendida canzone. Ti manca soltanto un finale che sia davvero all’altezza».
La madre suona e canta:
«This is the movement of shadows I’m feeling».
Con sentimento la madre accompagna al pianoforte la melodia, abbellendola con meravigliose fioriture musicali nelle tonalità acute e argentine del pianoforte, e alla fine conclude suonando anche un finale strepitoso – proprio il finale che il figlio si era immaginato e che però non riusciva a comporre. Il figlio tende l’orecchio. Che la sua canzone, in modo del tutto inatteso, abbia trovato un finale splendido lo riscuote a tal punto dallo stato di scorata tristezza in cui era caduto che si rialza in piedi.
Il figlio: «D’accordo. Fammi suonare il pianoforte, in fondo posso suonare il pianoforte».
La madre: «Lo vedi, non è poi così male».
E lascia la sala, soddisfatta e con il volto completamente annerito come piace a lei.
Il figlio si siede al pianoforte, suona e canta:
«This is the movement of shadows I’m feeling».
Da: © Michael Fehr, Hotel Bella Speranza, traduzione di Alessia Ballinari, Edizioni Casagrande, 2024
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Michael Fehr presenterà in anteprima Hotel Bella Speranza sabato 14 settembre alle 21 a Babel, nel giardino del Teatro Sociale di Bellinzona, nell’ambito dei festeggiamenti per i 75 anni delle Edizioni Casagrande, che coinvolgeranno anche gli autori Alberto Saibene, Claudia Quadri, Fabio Pusterla e la traduttrice Maurizia Balmelli. A seguire si terrà un concerto di Michael Fehr per festeggiare i 50 anni della Collana Ch, progetto che promuove la traduzione di opere svizzere contemporanee e che ha sostenuto la pubblicazione di ‘Hotel Bella Speranza’.
Diderot, Voltaire, Sartre, De Beauvoir, Camus, i grandi romanzi ottocenteschi di Hugo e Zola. Mai come in Francia, forse, letteratura e pensiero filosofico si sono confrontati da vicino con le questioni sociali, producendo alcune delle più significative opere letterarie dell’Occidente. Ed è alla Francia che Babel, Festival di letteratura e traduzione, si rivolge per l’edizione che si apre il prossimo 12 settembre a Bellinzona, per durare sino al 15.
Ribattezzato per il 2024 in ‘Babel France’, il festival invita Laurent Mauvignier, Sandra Lucbert, Gauz, Diaty Diallo, Seynabou Sonko, Elitza Gueorguieva, Clément Camar-Mercier, Jürgen Nefzger, Lorenzo Flabbi, Massimo Gezzi, Sara Rossi Guidicelli, Amiata, Yasmina Mélaouah, Fabio Pusterla, Maurizia Balmelli, Annalisa Romani, Pascal Janovjak, Luca Fiore. E Michael Mehr.
Il programma completo è su www.babelfestival.com.