‘Il mio sottomarino giallo’ di Jón Kalman Stefánnson, autobiografia atipica, disperata, commovente e a tratti irresistibilmente blasfema
“Vivere è ricordare il canto degli uccelli di ieri”. Partiamo da qui, da questa breve sentenza, incastrata tra altre migliaia di frasi che restano impresse come schiaffi sul cuore, un colpo dopo l’altro, senza tregua, senza bisogno che entri in funzione la materia cerebrale per poterne afferrare il senso più intimo. Non serve. La comprensione avviene ad altri livelli, molto più corporei e immediati, come nei migliori componimenti poetici. Bisogna lasciarsi avviluppare dai mondi allucinatori e magici a cui l’islandese Jón Kalman Stefánsson ci ha ormai abituato nei suoi libri, spiazzanti nelle prime pagine come un sentiero di montagna in salita, ma assolutamente irresistibili nel momento in cui si impara a respirare al ritmo delle parole, senza più chiedersi dove sia la meta e quanto tempo ci vorrà per raggiungerla. La fatica diventa poi riuscire ad abbandonare i fiordi del nord e i crudi e maestosi paesaggi islandesi per tornare alle nostre vite quotidiane, come accade al piccolo Bastian, protagonista de ‘La storia infinita’, invischiato in un libro che prende vita sotto i suoi occhi. Che vive attraverso di lui.
‘Il mio sottomarino giallo’, edito da Iperborea per la traduzione di Silvia Cosimini, è il racconto dell’infanzia e della giovinezza dell’autore, ripercorse tra salti nel tempo, allucinazioni e invenzioni dove il Dio del Vecchio Testamento viaggia sulla Trabant di un padre silenzioso e assente in compagnia di Johnny Cash o di Rod Stewart. La storia comincia da una ferita impossibile da rimarginare, che diventa leit motiv di tutto il libro: la morte della madre, comunicata a un bambino di 7 anni durante un viaggio in auto, proprio su quella Trabant che attraversa le pagine, squarciando qualsiasi dimensione spazio/temporale e scandendo una vita che comunque prosegue, accompagnata dagli spiriti di defunti ancora in grado di parlare, se ascoltati. “Ho paura che sia proprio un dato di fatto”, dice il padre al figlio, per togliere ogni dubbio sulla scomparsa materna. Una frase che torna come un puntello per ricordarci da dove siamo partiti. È da questo momento che cominciano i ricordi, è da qui in poi che è necessario rievocare “il canto degli uccelli di ieri”, scavare nelle macerie della memoria per riportare alla luce un passato destinato a sparire nel nulla, vissuto al ritmo delle canzoni dei Beatles e dei fantasmi del cimitero, unici amici di un bambino rimasto solo. Nel mezzo ci sono il Vecchio Testamento con il suo Dio feroce e sanguinario, gli antichi carmi della Mesopotamia, la ricerca continua di trovare il bandolo della matassa, il senso di un’esistenza dove si è destinati a essere dimenticati, a passare come un bagliore più fievole di una meteora.
Stefánsson ci regala un’autobiografia atipica, disperata, commovente e a tratti irresistibilmente blasfema, recuperando lo sguardo dell’infanzia su un mondo difficile da comprendere, su domande a cui neanche gli adulti sanno dare risposta. Figurarsi la lettura precoce della Bibbia. D’altronde Dio “non avrebbe mai potuto essere uno dei Beatles. – riflette il piccolo Jón durante le lezioni di catechismo – Con queste canzoni non sarebbe mai entrato nemmeno nei Rolling Stones”.