Interrogarsi sui compiti del giornalismo, dai tempi di Camus a quelli dell’impresa spaziale di Juan. E le parole di Primo Levi
Il compito. Ultimo numero estivo della rubrica, fra ritagli e ritrovamenti casuali. Poi ti accorgi che l’impresa spaziale di Juan, del 1969, era solo l’inizio. Che quel che ci dicevano dieci anni fa sulla nostra casa, cosa metterci e come viverci, come restarci e quando uscirne, non immaginavano quanto fosse utile ora. Che interrogarsi sui compiti del giornalismo oggi o ottant’anni fa esatti non fa differenza. Dipende da chi si interroga e dalle risposte. Queste parole di Camus si leggevano, in un articolo di Combat, il 31 agosto 1944. “Spetta a ognuno di noi misurare le parole, dare gradualmente un’impronta al proprio giornale, scrivere infine senza mai perdere di vista il compito enorme di ridare al paese la sua voce più autentica. Se facciamo sì che questa voce resti quella dell’energia e non dell’odio, della fiera obiettività e non della retorica, dell’umanità anziché della mediocrità, molto allora sarà salvo e noi non avremo demeritato”.
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Juan (prima parte). “Pietà per gli animali” intitolò uno dei capitoli de L’anello di Re Salomone Konrad Lorenz. Un altro: “Quando gli animali ci fanno ridere”. Ma la bivalenza è quasi una legge: ci fanno ridere – o sorridere – e ci fanno tenerezza o compassione. E il ritratto più noto del primo astronauta argentino, il «mono Juan» (lo scimpanzé Juan), quella faccetta racchiusa nella tuta di astronauta ci ispira i due sentimenti. Ritaglio l’articolo – da El Tribuno, quotidiano di Salta, Argentina, di cinque anni fa – e lo perdo in un libro ma ho già preso nota di tutto.
La storia di Juan risale al dicembre del 1969, alcuni mesi dopo l’arrivo dell’uomo sulla luna. L’Argentina diventò grazie a lui il quarto Paese al mondo a sperimentare il lancio di un razzo con a bordo un essere vivente.
Juan era originario della selva di Misiones (un nome un destino), pesava un chilo e mezzo e partì, alle 6.30 del 23 dicembre del 1969, sul razzo sonda di nome Canopus II. Canopus II non entrò in orbita ma sfiorò il limite dell’atmosfera terrestre, raggiunse cioè i 90 chilometri di altezza. Dopo quindici interminabili minuti atterrò col suo paracadute a 60 chilometri dal centro spaziale di Chamical, da dove era partito. Il viaggio fu “un successo”, sia per il Centro de Experimentación y Lanzamiento de Proyectiles Autopropulsados de Chamical, sia per il povero Juan, che tornò vivo. Dopo la disavventura andò a stabilirsi nel giardino zoologico di Cordoba, principale attrazione, per i due anni che visse ancora.
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Fuoco, fuochino, acqua. La sindaca di Parigi Anne Hidalgo vorrebbe conservare, concluse le Olimpiadi, alcuni “simboli” olimpici. Propositi lanciati durante un’intervista a France Bleu e di cui dà conto il ginevrino ‘Le Temps’. Vorrebbe tenere il braciere-non braciere, da qualche parte se non sospeso nel cielo della città. Il problema essenziale di un braciere non braciere – come alimentarlo – è un non problema e non richiede soluzione: non c’è il fuoco dentro, ma vapore acqueo illuminato. Da fisso nei pressi dello stadio, nelle Olimpiadi del passato, a sospeso in aria. Da braciere a mongolfiera. Da fuoco a acqua. Abbiamo assistito a un’Olimpiade senza la fiamma olimpica, e la parolina-passepartout pronunciata dall’ideatore è la solita ormai: sostenibilità. Braciere di molto effetto, bellissimo, ma forse era un’altra cosa. Spento il fuoco, se il simbolo si reggeva là, è andato via anche lui. Se invece a trattenerlo basta il resto, c’è ancora. Vorrei conoscere l’opinione di Marco Aime.
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Blu cobalto. Ho ancora chiaro nelle orecchie il suono dell’auto elettrica che mi è passata accanto. Quasi uno sciabordio. Puoi passare all’elettrico per puro egoismo. Il piacere di non sentire più il rumore e la puzza della tua vecchia macchina.
Come le smaltisci però le batterie? L’inconveniente può suggerirlo l’umano sempre possibile istinto a trovare inconvenienti, che non devi assecondare. Un modo si troverà. Le materie fossili sono peggio e alla “transizione ecologica” – a volte non ecologica e così nemmeno una transizione – non c’è alternativa.
“Alla base della guerra in Congo ci sono le miniere di cobalto. Il cobalto si usa per le batterie”. Lo dice un ginecologo congolese in visita in Italia. Racconta delle altre violenze legate alle miniere, per esempio quelle relative al suo lavoro di ginecologo. Negli ultimi fotogrammi del filmato si vede un bambino forse di due anni, accucciato, mettere terra rossastra in un sacco. Sono 40’000 i bambini che raccolgono cobalto perché è facile. Sta quasi in superficie. E il 70% del minerale che gira per il mondo lo fornisce la Repubblica Democratica del Congo. Quotidiani e riviste ne parlano, di tanto in tanto. Con maggior partecipazione e competenza, ‘African Arguments’. Ma occorre sapere di più di quel che ha detto il medico congolese?
Sì, in un certo senso; in un altro no.
Il blu cobalto è un bel blu prodotto chimicamente dal principio del XIX secolo, che ebbe un grande successo fra i pittori. Perché i blu naturali erano cari o carissimi. Se invece si vuol aver un’idea del colore del cobalto in natura, basta scrivere sul nostro smartphone, che contiene 3,5 grammi di cobalto: “miniera di cobalto” e cliccare su “immagini”. Si vedrà anche altro.
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Sostenibilità. Divertente, colorata e amara striscia di André Dahmer sulla Folha de S.Paulo del 27. Un omino in divisa rossa di chissà quale secolo, con baffetti arricciati e una lunga piuma sull’alto cappello, presenta un missile. “Questo è il T4 Tiger Mahone terra-aria”. Nelle due vignette che seguono specifica: “Uccide come il T3”, e conclude: “Con una differenza: senza danneggiare l’ozono”.
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Tre chiavi per una casa. I va e vieni dell’umore. L’umore è proprio un vapore, sottomesso a ogni soffio. Un modo di preservarlo nello stato desiderato sarebbe non aprire le finestre, rendersi impenetrabile dall’esterno? Ma fare questo e restare vivi a lungo non è possibile. Anatxu Zabalbeascoa accenna a qualcosa del genere in un articolo – “Le tre cose fondamentali di una casa” – di cui non ritrovo la data perché l’ho troppo ritagliato, ma sappiamo che è uscito sul País Semanal. Lo accenna in una delle tre regole cui una casa deve rispondere perché sia vivibile. Nella terza per l’esattezza, di sua formulazione, mentre le altre due vengono da un racconto di Capote, “Il giorno del Ringraziamento”. Una casa deve avere qualcosa di bello. Almeno una, ma bellissima. Per esempio una tovaglia di lino bianco. “Può arrivare il giorno in cui tutto quanto possiamo offrire sia acqua del pozzo – scrive Capote – ma potremo servirla su una tavola ricoperta di lino puro”. Poi degli angoli in cui rifugiarsi. Spesso quest’angolo non può essere che il bagno, e così è nel racconto di Capote, rievocazione dell’infanzia in casa delle tre anziane sorelle cui lo affidò la giovanissima madre. Ora il requisito della giornalista esperta di architettura: “La terza chiave che misura la bontà di una casa consiste nell’uscirne”.
L’articolo iniziato nel nome di Capote si chiude con quello di Chatwin, altro maestro di algidezza letteraria. Chatwin sostiene che chi non lascia mai la casa in cui è nato vive “una relazione circolare in cui non può succedere nulla”. Qui tornano dolorosamente le parole di Primo Levi, vissuto nella casa in cui è nato, la frase che ripeteva agli amici negli ultimi tempi: “Venite a tirarmi fuori di qui”.
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Un piccolo trucco. Modena era disseminata di frasi sul tema scelto per quell’anno: Giustizia. Richiamavano lo sguardo dalle vetrine con il rosso dello sfondo e il bianco dei caratteri, i due colori del Festivalfilosofia. Erano solo quattro o cinque, così ognuna potevi rileggerla più volte cercando il prossimo incontro o una panchina. “Singolare giustizia, che ha per confine un fiume” (Pascal, Pensieri), è la sola che ricordo. Che cosa avevo imparato sulla giustizia con sei articoli preparati, gli incontri seguiti, riflessioni, letture? Un po’ avevo imparato ma l’ho dimenticato presto.
“L’ingiustizia è ciò che volevo trasmettere – scrive Nathan Thrall, vincitore del premio Pulitzer 2024 con A Day in the Life of Abed Salama –, volevo una reazione viscerale. Negli ultimi dieci anni ho scritto relazioni per agenzie di stampa internazionali o per la London Review of Books. Le analisi sono importanti, ma nulla è più importante della sensazione viscerale quando entri in Cisgiordania e vedi quel sistema di dominazione etnica. Il mondo non può cambiare con le analisi, per impattanti che siano. Cambierà solo a partire da questa reazione viscerale (...) Personalmente ho sempre amato il giornalismo narrativo di lunga misura (...) C’è un piccolo trucco che usano i giornalisti narrativi. Tu hai la storia, il piatto principale, poi hai tutta l’informazione, l’informazione più educativa, che sono le verdure. Così vai mangiando verdure insieme all’alimento principale. Ed è l’unica maniera di mangiare le verdure”.
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Juan (seconda parte). Quante domande sull’impresa, suo malgrado, di Juan. Fu preparato con attenzioni e cautele, forse, ma quando lo misero sul razzo non sapeva cosa stesse per succedere. Cosa accadde in lui al momento della propulsione, che non è la partenza di un aereo? Che accadde in quei quindici minuti? Tutto un interminabile spavento? Cosa gli passava per la testa alle celebrazioni di dopo? Di ciò che gli passò per la testa prima, possiamo immaginare la parte di sbalordimento e di paura. «C’è un po’ d’Italia», come si dice in questi casi, nella sua missione. Uno dei padri dell’astronautica argentina è Aldo Zeoli, capo del progetto BIO che «si prefiggeva l’obiettivo della sperimentazione di esseri viventi nel lancio di razzi». Ma a proposito di esseri viventi: Juan era stato preceduto, due anni prima, da Belisario. Era l’aprile del 1967 quando il topo di laboratorio Belisario fu lanciato a tre chilometri di altezza. Poca cosa ma sparato da un razzo. Anche Belisario resse all’esperienza, pare. Certo tornò vivo e visse ancora per alcuni anni, come il suo futuro collega Juan.