Nonostante gli inviti alla liberazione, non si può fare astrazione dai condizionamenti che, oggi come ieri, cultura e società esercitano sul nostro corpo
Attualmente, e fine al 14 luglio, in una mostra intitolata Desiderati. Curati. Martirizzati. I corpi nel Medioevo il Museo nazionale di Zurigo si interroga sul modo in cui il corpo era vissuto, percepito, rappresentato e immaginato nel Medioevo. L’esposizione ha il merito di restituire all’immagine del corpo nel Medioevo quella complessità che ci permette di capire come, oggi come ieri, il corpo si colloca al centro di una serie di aspirazioni contraddittorie tanto sul piano individuale che collettivo. Se oggi viviamo in un’epoca dominata dalla ricerca della perfezione estetica e dall’edonismo, da imperativi salutistici e da onnipresenti selfie, anche il Medioevo aveva le proprie ossessioni. Nell’Europa cristiana di allora, tra il X e la fine del XV secolo, il corpo era desiderato, curato e glorificato, ma anche martirizzato, mutilato e martoriato.
Nel Medioevo, la Chiesa giocava un ruolo di primo piano nel definire l’immagine del corpo umano: il corpo, quello del Cristo ma anche quello dei santi, poteva essere oggetto di venerazione, manifestazione di purezza (la Vergine Maria) ma anche sede di desideri potenzialmente fuori controllo, trasgressivi e peccaminosi. Il corpo andava disciplinato, e il martirio dei santi, così come il digiuno e gli esercizi spirituali, contribuivano a fornire un ideale di corpo moralmente integro. Purtuttavia, gli usi e i costumi legati alla vita quotidiana del Medioevo rivelano che il corpo era altresì oggetto di cura e di attenzione estetica. I ceti più abbienti possedevano specchi decorati, si incipriavano la pelle, si tingevano i capelli e si cospargevano di profumi pregiati. L’esercizio fisico e la cura del corpo, appannaggio perlopiù delle classi privilegiate, erano invero abitudini piuttosto diffuse.
Il corpo è una realtà a geometria variabile, che può essere radicalmente trasformata e riconfigurata nel corso della storia. Nel libro Anoressia, Bulimia e Obesità (Bollati Boringhieri: 2006) per esempio, Massimo Recalcati mette a confronto l’esperienza del corpo nella contemporaneità con l’esperienza del corpo nel Medioevo. Il raffronto è tanto più pertinente nella misura in cui è organizzato attorno a un tema preciso: la privazione di cibo. Nel Medioevo la privazione di cibo, il digiuno, si configurava come un aspetto importante dell’ascesi spirituale. Nella contemporaneità, afferma lo psicoanalista, la privazione del cibo tende ad assumere un ruolo diverso, perdendo la sua valenza ascetica e salvifica a favore di una dimensione più estetica ma potenzialmente mortifera. Siamo al cospetto di due modi di vivere il corpo profondamente diversi che esprimono due atteggiamenti di segno opposto: da una parte abbiamo la passione mistica medioevale, e dall’altra l’ossessione anoressica contemporanea.
Per quanto ci si possa collocare in epoche o in aree geografiche diverse, il nostro corpo è sempre e comunque inserito in una cultura e in una società. Quella del corpo è la storia di una metamorfosi impastata di desideri espressi e repressi, e attraversata da una continua tensione fra la materialità e l’idealità, fra la costrizione e il desiderio, fra il bisogno e l’aspirazione. A suggerire la continuità di tali tensioni, e le molteplici declinazioni a cui la corporeità si presta attraverso i secoli, ci pensa anche una recentissima pubblicazione della storica dell’arte Angela Vettese dal titolo La rivolta del corpo (Laterza: 2024). Passando dalla trasgressività di Marlène Dietrich alla procacità di Marylin Monroe, dall’androginia di David Bowie agli eccessi di Orlan, e sostando nel variegato mondo della performance art, il libro indaga il modo in cui l’arte e la cultura popolare del Novecento riconfigurano e ricodificano l’immagine del corpo nella contemporaneità. Al di là della diversità di epoche e, quindi, di contenuti, colpisce che tanto il libro, quanto l’esposizione, siano strutturati in maniera simile. Nell’esposizione zurighese, come in un abbecedario vengono tematizzati corpi desiderati, diversi, ideali, malati, martirizzati, morti, nudi o sofferenti (ma la lista è in realtà più lunga). Un analogo principio organizzativo si ritrova nel libro della Vettese, come indicano i titoli dei capitoli che lo compongono: corpi autolesionisti, corpi dolenti, corpi erotizzati, corpi esposti, corpi vulnerabili (anche in questo caso, la lista è più lunga).
A risaltare da questo raffronto è la complessità dell’esperienza corporea e delle sue metamorfosi. È proprio Vettese ad affermare, a questo proposito: “è interessante notare come le manipolazioni sul corpo sono simili da millenni, anche se possono assumere caratteri giocosi, sacri, sacrificali, superstiziosi”. D’altra parte, si intuisce bene quanto il corpo sia stato oggetto, come ha mostrato peraltro Michel Foucault (1926-1984), di un instancabile lavoro di socializzazione, di disciplina e di manipolazione attraverso cui la società ha iscritto il proprio ordine trasformando il corpo in un luogo simbolico di potere e di lotta.
Keystone
Orlan
Il modo in cui sperimentiamo il corpo, la maniera in cui lo immaginiamo, il lavoro a cui lo sottoponiamo, non sono tanto la conseguenza di uno sviluppo biologico, quanto il risultato di un apprendimento di tipo culturale. Sin dalla nascita, e lungo tutto l’arco della nostra esistenza, sottoponiamo il nostro corpo a un lavoro di addestramento: lo modelliamo, lo alleniamo, lo discipliniamo e lo controlliamo. Nella tenera età apprendiamo a camminare, a mantenere una posizione eretta, poi crescendo rendiamo il nostro corpo presentabile e desiderabile attraverso l’esercizio fisico, o anche semplicemente vestendolo o profumandolo. Il sociologo e antropologo francese Marcel Mauss (1872-1950) parlava, a questo proposito, di tecniche del corpo, affermano che il più naturale oggetto e, allo stesso tempo, mezzo tecnico dell'uomo, è il suo corpo. Il corpo è dunque soggetto e oggetto di un processo di apprendimento grazie al quale assimila i ruoli e le norme sociali. Ma l’azione della cultura e della società è in realtà molto più estesa e profonda: anche le identità di genere, per dire, sono il risultato di un’azione normalizzatrice. Nelle pubblicità di prodotti destinati alla cura del corpo, i corpi femminili sono spesso eterei, longilinei, leggeri, quasi divinizzati, fuori dal tempo. I corpi maschili, al contrario, sono agili e possenti, scolpiti e scattanti, virili e palestrati.
Ma al di là delle differenze evidenti, che attestano la plasticità con cui ogni cultura, e ogni periodo storico, costruiscono la corporeità, è legittimo chiedersi: esistono delle costanti antropologiche che ci permettono di ricondurre il corpo ad alcune preoccupazioni comuni che rimandino a un’unità del fenomeno? Dopotutto, lo storico Yuval Harari in Sapiens. Da animali a dèi (Bompiani: 2014) afferma che “per quanto ne sappiamo, gli uomini che scolpirono l’uomo-leone della grotta di Stadel 32.000 anni fa possedevano le stesse capacità fisiche, emotive e intellettuali che abbiamo noi oggi”. L’esistenza corporea ci conduce, per esempio, a riconoscere che la morte è un fenomeno ineluttabilmente legato alla nostra condizione umana. Come illustrava Edgar Morin nel saggio L’uomo e la morte, l’orrore e il rispetto della morte, unitamente alla ripugnanza dei corpi in decomposizione, motivano l’esistenza di riti funerari le cui testimonianze più antiche, seppur meno elaborate di quelle attuali, coincidono con la nascita stessa della cultura. In questo senso, le differenze di tipo culturale non escludono la permanenza di alcune costanti di carattere antropologico. La mortalità è un tratto imprescindibile e universale del nostro stare al mondo: dalla morte non si può sfuggire e ogni cultura, società ed epoca deve fare i conti con questa verità.
Lungo l’arco della nostra esistenza, il corpo è la sede della nostra esperienza, ci accompagna e ci segue costantemente. Nel rapporto con gli altri, è la nostra carta da visita: per quanto esposto all’azione normativa e normalizzatrice della cultura e della società, è altresì una realtà individuale e personale. Come diceva il filosofo francese Merleau-Ponty (1908-1961), il corpo è il perno della nostra esperienza del mondo: il nostro corpo abita il mondo e noi abitiamo il mondo per mezzo del corpo. Non possiamo immaginare un’esperienza del mondo, della realtà, se non in riferimento al nostro corpo.
Nel gioco delle ambivalenze che lo costituiscono, il corpo è sia la materia viva nella quale la società iscrive le sue norme, sia il luogo simbolico della costruzione dell’individualità. Ma in questo rapporto fra il sociale e il personale, fra il collettivo e l’individuale, si annida, ahimè, un paradosso. Come faccio a far riconoscere la mia individualità se non attraverso l’approvazione della collettività? Lo stesso Merleau-Ponty era ben cosciente del fatto che, per quanto la corporeità rappresenti lo sfondo a partire dal quale prende forma la nostra esperienza, percepiamo il nostro corpo solo in maniera parziale e frammentaria. Una parte del nostro corpo rappresenta pur sempre una zona d’ombra, un punto cieco che non ci è possibile vedere se non ricorrendo a uno specchio, o a una fotografia che ci mostrino ciò che gli altri, potenzialmente, vedono di noi. Lo sguardo dell’altro ci è indispensabile per costruire l’immagine che ci facciamo del nostro corpo: per questo è impossibile, o perlomeno difficile, immaginare che il corpo si liberi completamente dai condizionamenti dei modelli e delle norme. Lo sapeva bene Jean-Paul Sartre (1905-1980), quando affermò che “l’importante non è ciò che facciamo di noi, ma ciò che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi”.
Per saperne di più: Desiderati. curati. martirizzati. I corpi nel Medioevo, esposizione al Museo nazionale di Zurigo, fino al 14 luglio; Angela Vettese, La rivolta del corpo, Laterza, 2024.
Keystone
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