La relazione amichevole di Matteo Terzaghi con il mondo è nel suo ultimo libro, detto con un’espressione sola un inventario delle marginalità
Preambolo o falso inizio. Quando nasce il miniracconto autonomo? Come? La micronarrativa richiede una speciale attenzione, come la scrittura poetica alla quale è imparentata, quasi una cautela e tempi lenti: tutte caratteristiche che restringono il numero dei lettori, oltre che degli editori. Ma la microscrittura, anche narrativa, si è sempre praticata. Dal secolo scorso in qua magari si infila nei diari, grandi magazzini e reliquiari, nebulose di tutti i generi e tutti i toni. Ognuna delle forme che si trovano in un quaderno di appunti può essere il germe di un microracconto. Altra questione: può avere una cosa così breve un nome lungo? Perché ha ancora tanti nomi? Perché con un secolo intero di storia alle spalle, o un millennio – favole e vite dei santi, detti dei Padri del deserto e bestiari, novellini, raccolte di aneddoti –, è appena nato. I nomi che includono “racconto” sono troppo lunghi. Meglio ricorrere a “storia”. Microstoria, storia minima. “Micro” però ha quel che di tecnico che si vorrebbe non avesse. La tradizione spagnola esita tra dubbi simili: microrrelato, microcuento, historia minima. Nella francese, inglese, tedesca sono certo che avrà una storia altrettanto radicata e antica, rinascente, scarsa di definizioni e con una quantità di nomi. Kafka, Pessoa, Altenberg non sapevano di scriverne ma i modelli sono ancora loro. Quel che si può dire, per ora, è che discendendo da tali autori, anche senza nome il miniracconto esiste. Ma non ce ne siamo ancora accorti.
Inizio vero. Ogni artista autentico, amando la libertà, ama i matti e i bambini, e i cosiddetti semplici – tra cui tutti annoveriamo almeno uno zio, un nonno –, che però non ci sono più. Amando libertà e matti si ritrova ad ammirare il coraggio. Un discreto numero di liberi e coraggiosi – emarginati, soli – popola le pagine di Walser, Wilcock, Celati. Segno mentalmente questi nomi mentre leggo ‘Il manuale del fosforo e dei fiammiferi’ (Quodlibet), il nuovo libro di Matteo Terzaghi. In alcune delle migliori pagine della raccolta si nota, insieme all’attrazione per la marginalità, per i dettagli parlanti più dei panorami, per le crepe del reale, quella specie di impassibilità e noncuranza che appartiene loro. Impassibilità esilarante e sinistra in Wilcock; una sola cosa con la persona (con la scrittura) in Walser, che era di un altro mondo da cui guardava questo; stralunata e da comica muta in Celati. In Terzaghi è cedevole e divertita, cioè appoggiata sui suoi contrari. Può essere il segno della gratuità applicata alla scrittura, questa impassibilità? Credo di sì. E può andare insieme al suo opposto: la tenerezza che non teme di mostrarsi.
Iniziare a scrivere da un’idea o una fissa, una cosa vista o appena capitata, un ricordo. E terminare quando decidono loro. Andare avanti così senza pensare a un libro, che alla fine si sarà fatto da solo. C‘è anche più di questo: quell’aria di provvisorietà - da cui sia una fragilità, sia una freschezza - dell’appunto preso per una storia da scrivere; che non scriverai perché mentre ne prendi nota l’hai scritta. L’autore dovrà soltanto, quando il libro è fatto, disporre le pagine in un disegno. Se dentro un libro c’è un altro “piccolo libro”, poi, come in questo caso, è logico o giusto che stia al centro. Il “Piccolo libro di lettura a uso di chi passa” è preceduto da dieci testi - tenendo fuori dal numero il preludio “Si comincia con un funerale” - e seguito da altri dieci. E a esso è specialmente dedicato il preambolo o falso inizio che si legge qui sopra. Inizia pateticamente col povero cane Prinz, in un’aria di favola o di apologo e con un sospetto, più di un sospetto, di realtà. Lo stesso sospetto avvolge le altre storie minime della sezione. Ricordi o ricordi di racconti lievitati in fantasia? O fantasie, soltanto, tra malinconiche e liete? Mi accorgo rileggendo che si tratta essenzialmente di ritratti, qui come nell’intera raccolta. E mi accorgo che tutto il ‘Manuale’ è umoristico, chiedendomi come non l’abbia notato prima. L’ingresso lo è, con quelle enciclopedie e manuali scombinati, astratti a forza di esattezza, sconfinanti nella poesia e inutili per tutti salvo per chi li ha scritti, con pochi altri. Da qui l’umorismo passa nel “Piccolo libro” e arriva ad “Altra infanzia”, ad animare le vite e i pensieri dello zio Bruno e del signor De Lorenzi, dello zio Henri e dello stesso Terzaghi ragazzo, mentre osserva se stesso, con gli amici, in complesse ed emozionate manovre tipografiche. Nelle pagine più libere e felici - nel senso di più pienamente risolte e talvolta proprio felici, preferibilmente nelle diverse gradazioni di ilari, liete - si può arrivare anche più in là: nel campo del gratuito già accennato. “È bravo nelle cose inutili” diceva il padre del pianista Renato Sellani riferendosi al figlio bambino. E Sellani, una sessantina di anni dopo, intitolò così un disco che registrò con Enrico Rava, ‘Le cose inutili’. Lo dice anche “L’accordatore” di Terzaghi, anzi lo dice spesso dunque ne è più che sicuro. L’accordatore, uno dei personaggi più accattivanti del libro – “Citofonava all’ora convenuta, salutava la famiglia con il fiatone dopo la fatica delle scale, si toglieva il cappello... – “ripeteva la sua teoria secondo cui la musica non serve a niente, ‘è il suo bello’...”.
Cognizioni superflue e irrinunciabili, fenditure del reale, perdite e ritrovamenti o solo perdite, piccole disastrose disarmonie nell’armonia generale, quasi sempre invisibile. Fuochi, fiammelle, lumi, meccanismi che vanno o s’inceppano. Sogni o residui di sogni, collegamenti che si scollegano, fisici o metafisici. E scombinatezze, cose fuor di norma e di squadra nell’atto di prendersi gioco di noi che ci sforziamo di inquadrarle. “Fate finta di essere voi stessi”, esortava amici e parenti Gianni Celati, al momento di scattare la foto. Li aveva invitati a fare un viaggio tutti insieme, nell’autobus più capiente. Girare per l’Emilia per vedere che succedeva. Ogni tanto li radunava e scattava una foto, all’ombra dell’autobus. Pure Terzaghi è attratto da tutti i “se stessi” autentici, anche se non hanno la minima idea di chi siano, loro stessi. I non livellati e non uniformati, i più certamente vivi (“C’era così tanta vita che non riuscivamo a starci dietro...”). Quelli che non pensano mai – non pensavano –: “se dico questo chi sa che succede, se faccio questo...”. Gli zii Henri e Bruno, il prof. Jacob e Armand Schulthess, “enciclopedista selvatico”. Spesso sono i meno colti, lo sappiamo, gli “illetterati”, questi più certamente vivi. O quelli a cui la cultura, avvicinata da una certa angolazione non tentata prima, ha dato alla testa.
Matteo Terzaghi ha messo insieme un inventario delle marginalità, per dirlo con un’espressione sola, insufficiente. Storie che rivelano la sua relazione ora giocosa ora delusa (ora timida o intimorita), ma sempre amichevole, con il mondo.