laR+ L’intervista

Cent’anni dopo, Matteotti vivo

Nell’imminente centenario del delitto, che cade il 10 giugno, incontriamo Stefano Caretti, autore con Marzio Breda de ‘Il nemico di Mussolini’

Dalla mostra ‘Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della Democrazia’, fino al 16 giugno a Roma, Palazzo Braschi
(Keystone)
7 giugno 2024
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L’assassinio di Giacomo Matteotti (1885-1924) è l’episodio chiave dell’ascesa al potere del fascismo, fece da spartiacque tra un fascismo in divenire e un fascismo inteso come regime totalitario brutale e dittatoriale. Eppure ancora oggi, a cent’anni di distanza, il caso non appare ancora chiuso definitivamente.

Stefano Caretti, ordinario di storia contemporanea all’Università di Siena, ha vissuto gran parte della sua vita in compagnia di Matteotti, che studia da oltre quarant’anni, essendo anche il curatore dell’opera completa in tredici volumi (1983-2020), e di innumerevoli saggi sul politico socialista al quale ha dedicato, in occasione dell’imminente centenario del delitto (10 giugno), un recente volume scritto insieme al giornalista Marzio Breda e intitolato Il nemico di Mussolini, per la casa editrice Solferino. Un lungo percorso, dunque.

Come è cominciata questa avventura?

Nasce già a metà degli anni Sessanta quando mio zio mi presenta a Fratta Polesine i figli di Matteotti, Giancarlo e Matteo. Poi mi viene chiesto di curare la voce Matteotti sul Dizionario del Movimento Operaio agli inizi degli anni Settanta e lì inizia il mio lavoro. Quello che mi aveva colpito in questo primo approccio è che su Matteotti non si sapesse nulla, cioè, sapevamo tutto dell’ultimo atto, la morte. Per il resto sapevamo che è il nome del politico del Novecento più presente nella toponomastica; del delitto si era fatto uno spettacolo al Piccolo di Milano e poi un film del regista Florestano Vancini. Ma chi fosse Matteotti, l’uomo, i suoi affetti, i suoi studi, il politico, si ignorava completamente. Di qui mi è sembrato giusto restituirne un’ immagine reale. Ho cominciato a raccogliere i suoi scritti ma ho incontrato grandi difficoltà nella pubblicazione. Mi sono rivolto a vari editori e mi ha colpito una risposta dell’editore Vito Laterza che suonava così: Matteotti è personaggio a noi caro, ma non ha mercato. Il delitto sì, Matteotti vivo no. Così ho potuto contare unicamente sul mio editore e ci sono voluti quarant’anni. Scomparso l’editore Nistri-Lischi di Pisa, è stata la Pisa University Press, che ha assorbito questa vecchia casa editrice del Settecento, a completare poi la pubblicazione degli scritti.

Quali di questi scritti, che hanno carattere politico, economico, sociale, privato, ha senso oggi conservare, rileggere, promuovere per il nostro presente?

Ho curato i carteggi, che stanno riscuotendo un grande successo. Si riscopre il valore della moglie Velia Titta, e del profondo rapporto fra Velia e Giacomo. Sull’attualità, sono due gli aspetti: la grande capacità amministrativa, cioè la sua concretezza. Questo porterà nel 1920 alle amministrative, in un territorio fino allora controllato da liberali e cattolici, ad avere la maggioranza in tutti i 63 comuni ed è anche questa una delle ragioni per cui poi scatterà la reazione agraria con il finanziamento di squadracce fasciste. Lui sogna di fare di questi 63 sparsi paesi una città metropolitana, per unire i servizi, concetto questo molto moderno, ed è un aspetto che colpisce molto gli attuali amministratori. L’altro è quello della politica estera. È tra i più esperti, il più colto, tanto che ai convegni dell’Internazionale Socialista è lui uno dei protagonisti su una questione fondamentale come quella delle riparazioni tedesche. Conosceva tre lingue e nel corso di questi convegni faceva anche da interprete. Altro punto è il pericolo della rinascita dei nazionalismi, tema attualissimo. Lui diceva: le condizioni penalizzanti imposte alla Germania provocheranno un revanscismo, e cita già il “Mussolini di Baviera”, Hitler, quasi prevedendo il rischio di queste condizioni, e sostiene che dobbiamo puntare agli Stati Uniti d’Europa. Solo così potremo, in una Europa collaborativa e civile, evitare future guerre.

Veniamo alla sua più recente pubblicazione, ‘Il nemico di Mussolini’. Il libro parte dal delitto Matteotti e comincia dallo scempio che viene fatto di questo corpo, scempio che viene ricostruito con un rigore quasi da polizia scientifica. Come è stato possibile?

Ci ha aiutato un nipote medico a Pavia, dandoci tutta la perizia dei medici legali, due liberali, e che quindi non erano ancora al tempo condizionati come altri, che hanno ricostruito tutti i vari aspetti, e questo è interessante perché è una testimonianza di trecento pagine che nessuno aveva avuto modo prima di consultare.

Ricostruiamo la vicenda del delitto. Lei dice che tutto è cominciato quando a Matteotti hanno tolto il passaporto, nel febbraio 1923. È questo il momento in cui si avverte il pericolo.

Il passaporto gli viene tolto perché lui in questi convegni internazionali, dove è una personalità molto ascoltata, parla anche del fascismo. Denuncia il fatto che il fascismo non ha certo portato l’ordine in Italia ma ha massacrato gli oppositori, comincia a togliere molte libertà, ha istituito una milizia che risponde solo al Presidente del Consiglio, pagata dallo stato, e già questo mette l’Italia fuori dai paesi democratici. Non solo. Sul piano economico lui dimostra che, se ripresa c’è stata in Italia, è dovuta ai governi precedenti sospinti anche dai socialisti, mentre invece con il fascismo la situazione va peggiorando.

Questo è quanto Matteotti scrive nel volume intitolato ‘Un anno di dominazione fascista’.

Sì, ma anche prima. È chiaro che ormai con un partito fascista che punta a una vocazione totalitaria, con la creazione di un gran consiglio e di una milizia armata di trecentomila uomini agli ordini del duce, già l’ordine democratico è stato superato, ma Mussolini è in una fase in cui vuole accreditarsi all’estero, tanto che a un certo punto, proprio per evitare che divulghi un’immagine negativa del fascismo, a Matteotti viene negato il passaporto per una riunione internazionale a Marsiglia. Lui tenterà nuovamente, farà domanda al capo della polizia De Bono per il passaporto e gli verrà sempre negato tanto che nel suo ultimo viaggio in Inghilterra e in Belgio attraverserà clandestinamente il confine. E nelle carte di polizia c’è scritto “negato per ordine di S. E. Benito Mussolini”. Poi però, il 4 giugno 1924 lui aveva fatto domanda per andare a una riunione internazionale a Vienna, e improvvisamente gli viene concesso il passaporto il giorno prima del convegno, e qui scatta quello che era il primo progetto di eliminazione. Viene liberato un soldato austriaco che era stato disertore, glielo si mette alle costole, il progetto era questo: attraversato il confine, ammazzarlo in Austria. Si sarebbe detto che questo era il frutto della polemica in atto in Italia fra comunisti e socialisti. Matteotti, vuoi perché doveva completare una nuova edizione di quello che sarebbe divenuto ‘Un anno di dominazione fascista’ e perché doveva preparare un discorso sui bilanci, alla fine rinuncia a partire. Fatto sta che il progetto austriaco ricalca quella che sarà poi l’uccisione dei fratelli Rosselli.

Dunque Matteotti non parte e il delitto viene portato avanti diversamente. Il pomeriggio del 10 giugno il segretario del Partito Socialista Unitario viene caricato a forza su un’auto e ucciso a pugnalate. Anche qui c’è grande accuratezza, nel suo libro, riguardo alla ricostruzione dell’aggressione, del rapimento e della consumazione del delitto. Il cadavere, seppellito in una fossa a Quartarella, a pochi chilometri da Roma, fu ritrovato circa due mesi dopo l'omicidio, il 16 agosto 1924. Nel ricostruire il delitto, il libro ricostruisce anche l’identikit degli assassini, primo fra tutti Amerigo Dumini.

Dopo il celebre discorso alla Camera del 30 maggio, che è l’atto finale, è chiaro che occorre eliminarlo. Fatalità vuole però che in quel periodo si fossero verificati nel quartiere dove abitava Matteotti una serie di furti. Non solo, ma la stampa romana titolava le prime pagine su alcune sevizie sessuali su due bambine e l’ultima era stata anche uccisa il 4 giugno. Perciò erano tutti in allarme. Il caso volle che la sera prima del sequestro e dell’assassinio di Matteotti, una macchina passasse nel suo quartiere e un portiere annotasse la targa. Era un pomeriggio caldissimo quando avvenne il sequestro sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, ci sono alcuni testimoni, ma senza il numero di targa tutto si sarebbe chiuso senza problemi. Con la targa i giudici in quel momento (giudici che poi saranno sostituiti) fanno indagini e arrivano subito ai sicari.

Subito dopo il delitto Matteotti, si allungano le ombre del depistaggio. Il più celebre è l’ultimo in ordine di tempo, riguardante uno scandalo di corruzione a carattere petrolifero, ovvero una convenzione stipulata tra governo italiano e la ditta statunitense Sinclair-Oil per lo sfruttamento petrolifero in tre zone del territorio italiano.

C’è stato un depistaggio all’epoca del delitto e questo non sorprende. Ma c’è anche ai giorni nostri, e questo forse sorprende di più. Ora va detto che si tratta di una notizia destituita da qualsiasi fondamento, prima di tutto perché si sostiene che il governo laburista avrebbe dato a Matteotti la documentazione necessaria, e non è così. Lui va e ci sono naturalmente tutti i resoconti. Dice: il fascismo non è solo un problema dell’Italia, l’ Europa corre molti rischi perché andiamo verso una crisi economica. E poi va perché spera che Un anno di dominazione fascista sia pubblicato in lingua inglese con un contributo del Labour Party. Non c’è nessun cenno a documenti forniti. E se si guardano i carteggi, per ogni congresso internazionale Matteotti avverte sempre Turati di tutto. La famosa borsa di cui si parla, piena di documenti, che piace tanto ai giornalisti, non esiste. O meglio lui esce con una busta bianca soltanto, dove c’è il suo passaporto e la lettera di un simpatizzante del Partito Socialista Unitario che gli chiedeva alcune pubblicazioni. La borsa è stata donata dalla famiglia insieme al suo archivio e adesso si può vedere nella nostra mostra itinerante, Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini, che è stata recentemente a Napoli. Quindi è tutta un’ipotesi costruita sul nulla. Matteotti fa cenno anche a questo tema in un passaggio di un articolo inglese, poi non ne parla mai. Non c’è nulla nelle carte che abbiamo recentemente ritrovato della sua edizione aggiornata, sono tutte statistiche, cifre. Non era personaggio da scandali. Poi diciamolo chiaramente: l’Italia aveva avuto ben altri scandali, non è che tu uccidi il segretario di un partito di opposizione per questo. Vi era stata anche una fronda fascista. Il giornale ‘Il nuovo Paese’ aveva già denunciato lo scandalo dicendo che si stava svendendo una proprietà italiana e il direttore del quotidiano del partito popolare dei cattolici, Il Popolo, aveva più volte insistito su questo. Ripeto: quello che è strano non è che ci siano stati tentativi di depistaggio all’epoca – questo si capisce –, ma che questo sia ripreso ai nostri giorni. E curiosamente da quello che stimo molto come storico, Mauro Canali, che ha scritto sul delitto il migliore dei volumi, ma che ha sposato questa tesi che, ripeto, si fonda sul nulla.

Ci sono state altre tesi, anni fa si era parlato di complicità della monarchia, poi a un certo momento si è detto che dietro c’era il Vaticano, la massoneria, oppure lo scandalo delle case da gioco, perché il governo avrebbe autorizzato l’apertura di nuovi casinò, tutte tesi che non reggono. Se i giornalisti o gli studiosi avessero la pazienza di documentarsi, vedrebbero che tutto emerge chiaramente al processo di Chieti, processo che viene spostato in questo piccolo centro proprio perché ci sia la minore attenzione, anche se saranno presenti alcuni giornalisti stranieri. Su questo Mussolini è netto, dà delle indicazioni: il processo non deve assolutamente assumere carattere politico, deve chiudersi entro una settimana, bisogna che il Paese non torni a ‘matteottizzarsi’. Però deve naturalmente tutelare i sicari che hanno avuto indirettamente ordini da lui attraverso Marinelli e Cesare Rossi, che non hanno parlato, e quindi chi va a difendere Dumini e complici? Il segretario del Partito Nazionale Fascista Farinacci.

È chiaro che se non ci fosse stato questo coinvolgimento e anche il timore di ricatti, Mussolini non avrebbe scomodato il segretario. Però Farinacci si fa interprete durante il processo di quella componente molto robusta per la quale è stato legittimo il delitto Matteotti, anzi si tratta del primo, perché anche gli altri oppositori vanno eliminati, ed è significativo che a difesa di Dumini testimoni Curzio Malaparte, interprete di un’intellettualità toscana convinta che sia legittimo l’uso della violenza, che si debba veramente fare piazza pulita. Mussolini più volte manda indicazioni, anzi molte volte ci sono vere e proprie reprimende perché lui dice che non si devono vedere le camicie nere, Farinacci invece fa festini con i camerati e ogni volta Mussolini lo richiama all’ordine. E nell’arringa finale il segretario dice “ma chi era Matteotti? Matteotti era un traditore, un antinazionale, era contro la guerra e delegittimava il fascismo all’estero”. Vengono fuori le ragioni reali. E mostra al presidente della Corte fascista, ma che ligio alle direttive mussoliniane cerca di frenarlo, Un anno di dominazione fascista nell’edizione tedesca. “Ecco cosa scriveva – dice –, dunque non poteva più circolare”. Farinacci si lascia sfuggire la verità, è più forte di lui, però la sconta e dopo qualche giorno Mussolini lo obbliga a rassegnare le dimissioni da segretario del partito, perché appunto ha messo Matteotti al centro della sua requisitoria, cosa che non doveva essere. Tutti si sono adeguati, Farinacci invece disattende. Un regime non può accettare che tu vada all’estero a screditarlo col prestigio che hai. Quindi il meccanismo non è molto complicato.

Matteotti era uomo di dimensione europea, poliglotta, viaggiava molto, in Francia, in Belgio, in Inghilterra, in Germania, Svizzera, ed ebbe rapporti con la Svizzera italiana e con Lugano.

Certo, perché c’erano due possibilità di uscita e di rientro, una poteva essere la Francia, l’altra la Svizzera. Ma lui, e di questo non ha parlato ancora nessuno, quando assume la segreteria del Partito Socialista Unitario, si rende conto che ormai tutta la corrispondenza viene controllata. Crea quindi – e in questo è stato efficace perché neanche gli storici sono riusciti a ricostruirlo finora se non adesso attraverso i suoi carteggi – un ufficio a Lugano che doveva servire per le comunicazioni. Infatti, quando deve comunicare con i socialisti francesi, con quelli tedeschi o coi laburisti, dice sempre di inviare la corrispondenza a Lugano. Quindi crea una base a Lugano che gli è estremamente funzionale, ma va anche detto che questa base poi si svilupperà successivamente, tanto che l’esule Sandro Pertini, quando decide di rientrare clandestinamente in Italia nel 1929, rientra con un documento perfetto – mi pare il nome fosse Nicola Durano – fatto in Svizzera, dove questo centro continuava a esistere, appoggiandosi anche ai repubblicani di Randolfo Pacciardi, che attraverso contatti con alti funzionari svizzeri, producono passaporti falsi per potere poi entrare in Italia.

Pertini viene arrestato a Pisa, ma vediamo come. La sua sfortuna fu che un avvocato di Savona si trovasse lì per una partita di calcio. L’avvocato lo riconosce e lo segue su un tram, vanno in questura e il questore dopo aver fatto esaminare il documento, dice ‘no, il passaporto è valido, questo è un cittadino svizzero, non capisco perché lei insista’, allora l’avvocato dice: “chiamate la madre e vediamo se lo riconosce o meno”. Di fronte a questa richiesta, che tirava in ballo l’anziana madre, Pertini rivela la sua identità. L’episodio dimostra che questi passaporti fatti in Svizzera erano perfetti, cioè c’è già in nuce un’organizzazione che parte con Matteotti e poi prosegue con l’immigrazione antifascista, socialista e anche repubblicana e dopo anche azionista in Svizzera. La vicenda di Pertini insegna che in Svizzera si facevano… veri passaporti falsi, con la complicità degli uffici competenti.

Il suo libro racconta anche le vessazioni subite dalla famiglia di Matteotti dopo la sua morte, sia la vedova che i figli.

Si tende spesso purtroppo a minimizzare i crimini del fascismo. Non si considera una classe politica distrutta: non solo Matteotti, ma anche Amendola, Gobetti, Rosselli. È una generazione che viene eliminata e che avrebbe potuto dare tanto all’Italia. Poi c’è la persecuzione verso qualsiasi gesto antifascista, il tribunale speciale, il confino, che non era certo una vacanza. La famiglia Matteotti non può uscire dai confini d’Italia. Gli antifascisti dall’estero invitano più volte a raggiungerli, ma ci sono disposizioni molto precise. Il questore di Rovigo è molto chiaro con la vedova Matteotti: lei rischia la sua vita e quella dei figli, se ci fosse un tentativo di superare il confine. Viene circondata sempre da carabinieri, 24 ore su 24, i figli pure e quindi vive (lo scrive in una lettera a Salvemini) come in una prigionia. E naturalmente fra la perdita del marito cui era legatissima e questa vita, lei si spegnerà ad appena 49 anni. Mi preme ricordare che per i più giovani è appena uscito un gioco Escape Room che si chiama ‘La Fuga di Velia’, creato da Atropo Kelevra e illustrato da Andrea Longhi, edito da Officina Meningi e dall’Archivio di Stato di Rovigo. È nel contempo una ricostruzione storica delle vicende della famiglia Matteotti e un gioco in cui si cerca di aiutare Velia a fuggire all’estero.

Anche la vita dei figli di Giacomo Matteotti è stata segnata dalle vicende del padre. La più giovane, Isabella, ne porterà i segni nel fisico, il più grande, Giancarlo, non parlerà mai del padre. Ho scoperto recentemente – me ne ha parlato l’ultima dei Matteotti, la figlia di Matteo Matteotti, Laura – che lei non sapeva chi fosse il nonno. Cioè, il padre non gliene aveva mai parlato. Quasi sul punto di morire, per il compleanno della figlia, le ha mandato il carteggio fra Giacomo e Velia Matteotti, e così come lei stessa ha detto in un’intervista, solo allora ha conosciuto la vicenda del nonno. E per quanto riguarda Giancarlo Matteotti, prima di morire mi ha consegnato le sue memorie inedite, dicendomi “queste sono le mie memorie, non devono essere pubblicate, ma se tu vuoi puoi estrarre qualcosa”, cosa che ho fatto nel volume scritto con Marzio Breda. Una è nel retrocopertina e riguarda il modo in cui i figli ancora bambini seppero della morte del padre, l’altra un episodio a Varazze in cui il bambino Giancarlo venne schiaffeggiato da un fascista adulto.

Oltre a una moglie scrittrice, con cui ha scambiato un carteggio bellissimo, Matteotti ha avuto anche un genero di fama mondiale, il baritono Titta Ruffo, fratello di Velia, anche lui perseguitato perché amico e sostenitore di Giacomo.

La ricchezza del personaggio è che Matteotti non era solo un politico, un giurista e un economista di valore ma aveva molti interessi, leggeva poeti inglesi, i testi delle opere di Wagner in tedesco, romanzi in francese, e aveva una grande passione per il teatro in tutte le sue espressioni, per esempio concerti d’avanguardia frequentati da pochissime persone, l’opera lirica, e quando si spostava, se c’era un’opera – lo dice nel carteggio con la moglie – lui andava. Un mese prima di morire si recò al funerale di Eleonora Duse ad Asolo. Con Turati e la Kuliscioff quando era deputato, andava al cinema. Quindi si era stabilito un grande rapporto di reciproca stima fra lui e Titta Ruffo.

Al momento del ritrovamento del corpo di Matteotti, Titta Ruffo è in Sudamerica. Teniamo presente che allora le compagnie partivano e stavano fuori sei mesi. Lui e Caruso erano strapagati non solo negli USA ma anche a Cuba, in Argentina, Perù o Colombia, dove lui si trovava per una rappresentazione del Rigoletto. Quel giorno riceve la notizia del ritrovamento del corpo di Matteotti. Torna in Italia e sarà poi lui a trasportare la bara a spalla. A due mesi dal processo di Chieti, dopo che tutti sono stati liberati, lui per protesta lascia l’Italia dove non tornerà più per cantare, viene boicottato perché i sovrintendenti all’epoca erano tutti fascisti, però continua a cantare all’estero. Soprattutto incide molti dischi. Torna poi in Italia per aiutare la sorella Velia quando vorrà disfarsi di tutte le terre, e viene arrestato in casa di Velia con l’accusa di avere chiacchierato nello scompartimento di un treno, avanzando riserve sul fascismo, e per questo era stato subito denunciato. L’arresto provoca tali proteste internazionali che Titta Ruffo viene liberato, ma gli viene tolto il passaporto e gli viene intimato di vivere a Bordighera, lontano dai familiari, e lì poi lui è rimasto salvo poi spostarsi su Firenze. Qui, quando c’è la caduta del fascismo, va sul balcone e canta La Marsigliese. Poi però il fascismo ritorna nella sua forma peggiore e lui si deve nascondere fino alla fine della guerra.

C'è un episodio che ho ricostruito nel libro. Nel ’25 aveva cantato per beneficenza al Teatro Verdi di Pisa quello che era il suo cavallo di battaglia, l’Amleto di Thomas. All’indomani della recita viene messa una targa di marmo per ricordare questo evento. Dopo qualche giorno viene distrutta dagli squadristi. Ma dopo la liberazione di Pisa, nel ’45, è nuovamente invitato perché viene ricollocata la targa, che si può vedere ancora oggi al Teatro Verdi. Mi raccontava il filologo Sebastiano Timpanaro, pisano, che era presente, che a un certo momento gli era stata chiesta un’aria e lui aveva risposto “la voce non è più quella”, ma cantò nuovamente il suo Amleto e la vicenda si concluse con un trionfo per Titta Ruffo.

Parliamo delle celebrazioni per il centenario del delitto Matteotti. Sbaglio o dal governo italiano non è arrivato un soldo?

È stato istituito nel 2022 il Comitato nazionale per le celebrazioni, a favore del quale è stata approvata la legge Segre, con, se ricordo bene, settecentomila euro. Ma i tempi sono slittati guarda caso, per cui tutti i progetti si sono dovuti fermare. Pare adesso si sia sbloccato. È un po’ come la vicenda della Regione Lazio che aveva stanziato ottantamila euro e poi per un problema tecnico i soldi non sono stati erogati. Naturalmente io ho una mia tesi, e cioè che effettivamente sia difficile in questo momento per una formazione politica come quella che ci governa, venire a patti con la figura di Matteotti, che è ancora divisiva. È più semplice, ad esempio, con un personaggio come Enrico Berlinguer. Tutti sono andati alla mostra su Berlinguer, anche la premier. Adesso si dice che Almirante e Berlinguer si incontravano spesso per affrontare i loro dibattiti. Però l’impressione è che sia talmente orrendo questo delitto Matteotti che in fondo da parte loro non si veda l’ora che l’ anniversario passi.

Matteotti è come il 25 aprile: è divisivo se sei fascista.

Sì. Però sinceramente io mi metto anche nei loro panni. Tu puoi dire “cerchiamo una memoria condivisa”, e la trovi per esempio nei campionati di calcio, ma se un partito ha ancora la fiammella con lo spirito di Mussolini che fa capolino nel simbolo, come puoi pensare che questi possano dichiararsi antifascisti? Forse è meglio così, nel senso che è tutto più chiaro. C’è stata anche la vicenda del mio amico Mimmo Franzinelli. Va per presentare il suo volume su Matteotti e Mussolini in un paese del Veneto e il sindaco nega qualsiasi sala, così lui decide di presentarlo in piazza. Questo restituisce la misura di quanto Matteotti sia ancora divisivo. Che potrebbero dire quelli di Fratelli d’Italia? E se lo facessero sarebbe una tale ipocrisia col simbolo che si tirano dietro che – ripeto – è anche meglio così. Preferisco una memoria che su questo non è condivisa e accettare il fatto che non lo sia. Come si può chiedere alla premier di dichiarare di essere antifascista? Le origini sono quelle, se poi gradualmente faranno dei passi avanti, se faranno una buona politica sotto altri aspetti, bene, però in quel passato c’è stata la guerra civile, non è che si possa ricomporre una memoria. Dunque piuttosto che tanta ipocrisia, meglio questa memoria separata. Credo che anche Matteotti la penserebbe così.


Stefano Caretti, ordinario di storia contemporanea all’Università di Siena

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