Sapeva dell'angoscia e della repellenza generate dalle sue storie. Eppure, tanti aspetti suggeriscono levità. Moriva cent'anni fa
Ho trovato la prima edizione dei Colloqui con Kafka di Gustav Janouch (Aldo Martello Editore, Milano). Me ne accorgo ora dopo averli letti: finito di stampare “il 5 settembre 1952”. La prima edizione originale è solo dell’anno prima.
La maniera più opportuna e amabile per conoscere Kafka. Il padre di Gustav era collega dello scrittore. Scoprendo che il figlio scriveva poesie, chiese a Kafka di poterglielo presentare. E Gustav inizia ad annotare nel diario gli incontri, le parole scambiate. La conoscenza avviene “verso la fine di marzo del 1920” – Janouch aveva 17 anni, Kafka 33 –, l’ultimo incontro è forse del 1923. Ma le note furono pubblicate solo ventidue anni dopo. “Kafka ha gli occhi grandi e grigi sotto folte sopracciglia scure. Il suo viso è bruno e molto vivace. Egli parla col viso. Quando può sostituire alla parola un movimento dei muscoli facciali, lo fa”. Da qui in avanti, cento pagine preziose di un Kafka dal vivo, chimicamente puro (com’era sempre), quasi paterno vista la distanza di età e la sensibilità del suo giovane amico. A pag. 53 si legge: “Per la maggior parte gli uomini non sono affatto cattivi. Gli uomini diventano cattivi e colpevoli perché parlano e agiscono senza figurarsi l’effetto delle loro parole e delle loro azioni. Sono sonnambuli, non malvagi”. A pag. 87 un giudizio sul narrare: “Un narratore non può parlare dell’arte di narrare. O racconta o tace, ecco tutto”. Segno le parole di Kafka ma tante di Janouch meritano di essere rilette, e così le descrizioni, i gesti di Kafka che l’amico riporta. Qui c’è un’autoanalisi che è facile condividere; l’impressione di molti lettori che l’autore conferma: “Scribacchiando fuggo me stesso, ma alla fine mi ripiglio. Non posso sfuggirmi”. Qui una riflessione sull’amore: “Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita, verso tutte le altezze e tutte le profondità. L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo: problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada”. Qui infine – l’ultima nota prima di quella che registra la morte di Kafka – poche righe che fanno sparire una libreria di saggi di auto-aiuto, poiché non dubiti dell’autenticità: “Stia tranquillo e abbia pazienza. Lasci che il male e i dispiaceri le vengano addosso. Non li eviti, anzi li osservi attentamente. Sostituisca la comprensione attiva alla irritazione reattiva e vedrà che saprà superare le cose. Alla grandezza si giunge soltanto attraverso la propria piccolezza”.
“Quasi la vita di un santo”, dice John Banville della biografia kafkiana di Citati. Intende che è scritta “come” la vita di un santo. Ma credere che l’esistenza di Kafka sia vicina alla vita di un santo non è difficile.
Tre romanzi e quattro racconti lunghi, altri racconti brevi o brevissimi. Ma i Diari e le lettere fanno corpo con il resto. E poi ci sarebbero i frammenti e gli aforismi, che occupano 500 pagine. Si può dare un’immagine a tante diverse scritture, del genere che conosciamo? Forse un gomitolo (un grande gomitolo che si comincia a sbrogliare e non si riesce ad andare avanti). Come appare quella ‘spoletta’ vivente che è Odradek, uno dei personaggi suoi più famosi. Se Kafka fa anche sorridere, la pagina in cui appare Odradek, Il cruccio del padre di famiglia, è uno dei modelli per una simile e inaspettata reazione.
Un tempo lo credevo o volevo crederlo, che Kafka facesse ridere. Poi ho letto in Kundera che se tutti fossimo cechi rideremmo come i cechi quando leggono Kafka: gli europei occidentali, diceva, non comprendono quel genere di umorismo. Confermava ciò che volevo credere – cercavo le minime tracce del Kafka non “kafkiano”, segni che smentissero il cliché –, ma ora di nuovo ci credo poco che i cechi ridano leggendo Kafka. Una smorfia tiepida e breve, forse, a cui partecipa la pena. Altro era scoprire il riso di lui, le risate di Kafka. Cosa più agevole e che pure manda all’aria lo stereotipo del dimesso impiegato, la cameretta dello scapolo ecc. Che corrispondono al vero, ma fanno sparire tutto il resto.
In una risata memorabile scoppiò alle parole per la sua promozione. All’ampollosità del discorso non poté più resistere. Solo una lettera di scuse, spiegazioni e chi sa cos’altro – di 16 pagine, puntualizza il biografo Wagenbach – ricucì la frattura.
L’incompiutezza delle opere non smette di incuriosire. La questione è che gli inizi non furono per nulla “incompiuti” – al limite frammentari, maniera squisita di aggirare l’ostacolo – con i diciotto testi di Contemplazione. Testi è la denominazione neutra che include il racconto e la descrizione, l’annotazione stralunata e la cosa intravista che diventa sogno. L’edizione fu possibile per la tenacia di Max Brod. In un viaggio passarono per Lipsia e a Lipsia per l’ufficio di Kurt Wolff. Presentazioni, imbarazzi, lodi, auguri e promesse di risentirsi. E nel giro di qualche mese Contemplazione è stampata.
Con i quattro grandi racconti che seguono, Il verdetto, Il fochista, La metamorfosi, La colonia penale, non andò diversamente. Tutti hanno una fine e Wolff li accolse tutti, entusiasta. Li scrisse nel giro di un anno: settembre 1911 - novembre 1912. Il fochista doveva essere l’inizio di un romanzo, che procedeva tra una delusione e l’altra fino a quella definitiva (“500 pagine completamente fallite”). Quel primo capitolo, riletto, gli parve un racconto ben compiuto, perché mancava il resto: “È un frammento – scrive a Wolff – e tale resterà; questo suo futuro è ciò che conferisce al capitolo la massima completezza”. (Il romanzo fallito, America, uscirà com’è noto dopo la sua morte). Del Verdetto era molto soddisfatto e ne espresse un giudizio per noi illuminante, in una lettera a Felice: “Trovi nel Verdetto un qualche significato, intendo un significato lineare, coerente, che si possa seguire? Io non lo trovo, né riesco a spiegare niente”. Parole che ci autorizzano a leggerlo, lì e ovunque, senza cercare significati quarti, terzi e secondi (in quest’ordine) prima del primo. Anche se non c’è.
I racconti di Un medico condotto ricordano, nella misura di nuovo breve, la raccolta d’esordio. A questo punto, due fondamenta della letteratura kafkiana, l’incompiutezza e l’essenza postuma, sembrano vacillare. Dei racconti restano i quattro degli ultimi due anni di vita, tra i più misteriosi e ben chiusi anche quelli. E i due cardini citati paiono validi per i soli romanzi. Ma Il processo usurpa un poco tale fama. Un finale più finale di quello è difficile trovarlo, e infatti è la vera fine: intendeva inserire ancora uno o due capitoli, pagine restate fuori, ma l’ultimo capitolo era deciso. Questa sarebbe la fragile, comune a tanti romanzi, incompiutezza del Processo.
Che nei finali si menta più che altrove, questo lo pensava di certo. E in un abbozzo di lettera accenna alla “disumana compiutezza” delle opere narrative.
“Se non aveva nulla da fare, la pallina se ne andava (...) su e giù per l’altopiano; le vie le evitava. Era dell’opinione che con le vie la si tormentasse abbastanza durante il gioco e che perciò aveva bene il diritto, quando non si giocava, di riprender fiato sulla libera pianura. Certe volte guardava per abitudine il vetro a volta, comunque non con lo scopo di distinguere qualcosa lassù”. Il giochino che conosciamo: il tascabile e breve paesaggio con le vie tracciate e una pallina che le percorre, grazie all’abilità delle nostre dita, per raggiungere la buca. Kafka lo descrive nelle prime righe del raccontino: “C’era una volta un gioco di pazienza...”.
Kafka e la leggerezza. Kafka lieve e anche lieto. Lui stesso si leggeva come noi lo leggiamo. Sapeva bene dell’angoscia e della repellenza (lo scarafaggio, ma non solo) a cui aprivano le sue storie, e giudicava meglio riuscite le più angosciose. Eppure tanti aspetti in lui fanno pensare alla levità. Amava il nuoto e il canottaggio. I cavalli sono una presenza costante, simbolo di agilità e forza: a volte arrivano alla meta in un volo. Amava le ombre cinesi e, se c’erano bambini, non occorreva pregarlo per iniziare la rappresentazione. Nell’ultimo anno della sua vita, ai sei mesi berlinesi risale l’episodio, di una giocosità e tenerezza estreme, delle lettere della bambola. Vide in un parco una bambina piangere per aver perso la bambola. Non si era persa, disse lui, è solo partita per un viaggio. “Mi ha scritto, domani ti mostrerò la lettera”. Tornato a casa, scrisse alla bambina la prima lettera della bambola. Poi scrisse la seconda, poi le altre, in cui la bambola le raccontava le sue giornate, i suoi incontri. Un giorno comunicò che stava per sposarsi. Salutava con affetto, dicendo che ormai la sua vita era altrove.
Congegnò con Dora Diamant questa lettera finale. Si erano conosciuti nel luglio del ’23, in una colonia estiva di bambini ebrei berlinesi, sul Baltico. Aveva 19 anni, “era candida, appassionata, drammatica e romanzesca”, scrive Citati nella sua biografia. Sognarono di andare a vivere Berlino, e ci andarono. Vissero poveramente, per la tremenda crisi economica tedesca, cambiando tre case. Ricevevano pacchi da Praga che non bastavano mai. Non era mai stato così felice – non così a lungo – né così male per la tubercolosi, né tanto in quiete malgrado i fantasmi che continuavano a seguirlo, né così amato, né così vicino alla famiglia lontana. Quando la malattia si aggravò, fu mandato da Praga lo zio preferito, “il medico condotto”. Gli disse che al sanatorio non c’era alternativa. Ne girò tre in due mesi. Nel terzo, a Kierling nei dintorni di Vienna, lo raggiunse l’amico medico Robert Klopstock.
Negli ultimi giorni comunicava scrivendo bigliettini. In molti di essi si riferiva ai fiori “di cui Dora e gli amici gli colmavano la stanza” (Citati). Non ripeterò qui i suoi ultimi momenti, le ultime parole. Copierò tre di quei bigliettini. “Vorrei avere una cura particolare delle peonie perché sono tanto fragili”. “E portare i lillà al sole”. “Ha un minuto di tempo? Allora spruzzi un po’ per favore le peonie”.
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Kafka all’età di 5 anni