Culture

La lingua di don Milani sfida tutti i cliché

Nasceva cent’anni fa il fondatore della scuola di Barbiana. Un’intervista per conoscerlo, oltre gli stereotipi sul ‘sessantottino’ e ‘cattocomunista’

(Scuola di Barbiana)
10 giugno 2023
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“Scomodo”. Paradossalmente, è quando non ci si vuole scomodare troppo che si designa con questo aggettivo don Lorenzo Milani (1923-1967), specie ora che son passati cent’anni dalla sua nascita e la fretta delle celebrazioni travolge l’analisi, reiterando vecchi cliché: icona ribelle per la sinistra, pericoloso guastatore della scuola “quella vera” per la destra.

Borghese fiorentino di madre ebrea, fattosi prete durante gli studi d’arte all’Accademia di Brera; fautore di un cattolicesimo coi piedi nel fango; prete radicale spedito per punizione a Barbiana, borgo di contadini senz’acqua né luce perso nel Mugello del 1954; fondatore dell’omonima scuola che tenne aperta fino alla prematura morte, facendo lezione per dodici ore al giorno, sette giorni su sette, a ragazzini cui altrimenti sarebbe stato negato ogni diritto all’istruzione; fautore di un motto – “I care”, me ne prendo cura – agli antipodi del “me ne frego” fascista; brusco animatore del dibattito pubblico su temi quali la missione pastorale e l’obiezione di coscienza, per la cui difesa fu denunciato e processato in articulo mortis. Don Milani fu e fece tutto questo e molto altro.

Per raccapezzarsi – sottraendolo tanto all’imbalsamazione quanto all’oltraggio – è d’enorme aiuto il saggio ‘La lettera sovversiva’ di Vanessa Roghi (Laterza). La storica parte dalla ‘Lettera a una professoressa’, scritta collettivamente dagli allievi della scuola di Barbiana – dove i più grandi erano a loro volta chiamati a educare i più piccoli – insieme al loro maestro. Una missiva cruda e provocatoria, rivolta a una maestrina-tipo e divenuta, già a partire dalla sua pubblicazione nel 1967, “livre de chevet di una generazione: letto, ma soprattutto non letto, da centinaia di autoproclamatisi eredi del verbo di Barbiana nonché da decine di intellettuali castigatori di ieri e di oggi”. Ne parliamo direttamente con Roghi, che da poco ha anche pubblicato ‘Mia patria sono gli oppressi’ (Momo), illustrato da Marco Petrella e mirato a far conoscere don Milani anche ai più giovani.

Prima, le basi: cosa fu la scuola di Barbiana?

Per capirlo occorre anzitutto ricordare cosa fosse l’Italia tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso. Parliamo di un Paese in cui la democrazia esisteva da pochissimi anni: la Costituzione è del 1948 e al momento della sua scrittura solo il 60% degli italiani era in grado di comprenderla. I decenni successivi videro esplodere enormi problemi riguardanti le fasce più povere e isolate della popolazione, problemi che investivano anche la scuola: molti figli di contadini non potevano raggiungere le scuole medie né potevano sottrarre alla famiglia la loro forza lavoro, sicché abbandonavano gli studi prima del tempo. È questa la realtà che Lorenzo Milani si trovò davanti a Barbiana, dopo aver già fatto doposcuola agli operai di Calenzano. A quei bambini isolati e poveri propose una sorta di scuola media parrocchiale.

Si dice che i suoi modi fossero talora bruschi, ma quali erano i suoi metodi?

Non aveva studiato pedagogia, ma in quanto prete aveva acquisito certi rudimenti in seminario e poi negli anni successivi. In più, veniva da una famiglia molto colta e innamorata della lingua. Unendo le due cose, introdusse metodi come rimanere tutto il giorno attorno a una parola del vocabolario, sviscerandone tutti i significati e facendola vivere come fosse un personaggio. Un approccio che affronta un problema centrale per i poveri: la mancata comprensione e conoscenza della lingua, anche in una regione come la Toscana che si vuole culla dell’italiano nazionale.

“È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui”: una concezione democratica che lega la lingua ai diritti e mette in primo piano il vernacolo contadino, contrapposto all’italiano levigato di chi ha “più in onore la grammatica della Costituzione”. Lotta di classe col vocabolario?

C’è senz’altro un elemento di questo tipo, così come è opportuno notare – come fecero Antonio Gramsci e il linguista Tullio De Mauro – che il dibattito sulla lingua nazionale coincide con la trasformazione sociale del Paese, il quale nel dopoguerra conobbe l’industrializzazione, la migrazione di massa verso le capitali del nord, dunque una scuola che dovette affrontare enormi sfide d’integrazione. In questo frangente – che corrispose pure all’arrivo della televisione nel 1954 – anche intellettuali quali Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino si interrogarono sull’interazione tra cambiamenti sociali e linguistici. Don Milani rivendicò una lingua fatta dai parlanti e un’educazione che tramite essa superasse certe forme di esclusione.

Una cosa è dunque la lingua di Gianni – figura centrale della lettera: il povero, il bocciato, l’escluso – e un’altra quella di “Pierino del dottore”, il ragazzino borghese che “scrive bene” perché “parla come voi, appartiene alla ditta”. Viene in mente l’elogio di Franti di Umberto Eco, in cui l’“infame” del libro Cuore è contrapposto al pettinato e ubbidiente Enrichetto, il narratore. Don Milani vede Gianni e Pierino quali nemici giurati – un po’ come facevano i comunisti dell’epoca – oppure ne auspica una ricomposizione?

Don Milani incarna la ricomposizione nella sua stessa vita di borghese tra i contadini, orientata a una prassi in cui chi sa di più deve fermarsi finché gli altri non lo raggiungono, e “il sapere, se non è condiviso, non serve a niente”. Emancipazione e condivisione non escludono un elemento di lotta di classe, anche per la situazione sociale dell’epoca; ma lui si pone anche oltre, senza mai vagheggiare una dittatura del proletariato. D’altronde, l’approccio di don Milani non è impositivo, non si tratta dell’intellettuale che dà la parola ai poveri, dall’alto al basso: Eco riconosce Franti, don Milani lo fa parlare. Così facendo, ci permette di ascoltare per la prima volta quel che ha da dirci.

Un elemento che insieme alla stessa centralità del ‘logos’ rivela l’ispirazione cristiano-sociale del priore di Barbiana, spesso dimenticata pur di dipingerlo – da destra e da sinistra – come un (catto)comunista. Forse è anche per questo ‘ascolto’ che appare meno paternalista, ad esempio, di Pasolini?

Neppure la Chiesa e i cattolici sono storicamente estranei al paternalismo, ma l’intuizione ‘linguistica’ di Milani aggiunge qualcosa, in una dimensione di emancipazione oltre che di incontro. Come scrive al direttore del ‘Giornale del Mattino’ Ettore Bernabei, “io sono sicuro che la differenza tra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola”. Quella soglia, che può anche servire per chiudere fuori, va invece spalancata.

Quello della sua scuola, privata e confessionale, voleva anche essere un modello per la riforma della scuola pubblica italiana?

No, e lui lo ripeterà fino allo sfinimento. La sua è semmai una provocazione che della scuola pubblica chiama in causa i limiti e le contraddizioni, denunciando una certa volontà classista che contraddice la Costituzione. Vedendo i ‘reietti’, coloro che quella scuola esclude, offre anche a chi insegna negli istituti statali una testimonianza che per molti fu un pugno nello stomaco.

La Lettera diventerà in effetti “il libretto rosso del movimento del Sessantotto italiano”. Come mai?

Anzitutto il suo linguaggio era molto potente, diretto, chiaro, al punto da prestarsi bene anche a quel bisogno di slogan che andava emergendo con la contestazione. Vi si riconobbero così i nuovi studenti universitari, quelli che avevano iniziato le medie dopo la riforma del ’63, sebbene quel libro non fosse scritto per loro. D’altronde, gli effetti di un libro non sono governabili da chi lo scrive.

Tanto più che subito dopo la pubblicazione don Milani, che all’epoca aveva 44 anni, morì a causa di un linfoma. Non poté dunque rintuzzare eventuali appropriazioni indebite della sua figura, né rispondere alle critiche mosse ancora oggi al ‘donmilanismo’. Secondo il giornalista Riccardo Chiaberge – uno tra mille detrattori, da Ernesto Galli della Loggia a Paola Mastrocola – “la predicazione di don Lorenzo Milani è diventata il vangelo di tutti coloro che rifiutano per principio qualsiasi selezione”. Risultato: il declino irreversibile della scuola italiana, signora mia.

Purtroppo questi critici partono dando per scontato che la scuola di oggi sia peggiore di quella di cinquanta o settant’anni fa. In realtà si tratta di un assunto non dimostrato, e anche le misurazioni statistiche sono spesso lette in modo sbagliato dai media. E poi non si può generalizzare il discorso sulla scuola di ogni ordine e grado. Quello che emerge osservando la scuola da vicino è semmai che a non funzionare è quel che è rimasto incancrenito nel tempo. Al contrario, chi conosce la scuola vede che le riforme e l’investimento in una nuova formazione degli insegnanti – come nel caso della scuola primaria – hanno dato ottimi risultati: i problemi ci sono, ma non si tratta certamente di scuole in rovina.

Il richiamo alla meritocrazia, però, rimane molto forte, non solo in Italia: anche in Ticino, nel corso della discussione sul superamento dei livelli alle scuole medie, c’è chi ha paventato una permissiva liquidazione dell’esser bravi scolari come criterio di selezione.

Senza entrare nel merito dell’istruzione ticinese, mi limito a notare che il discorso su certe distinzioni ‘meritocratiche’ ha senso solo se il livello di partenza degli allievi è lo stesso per tutti, e questo capita assai di rado. Certo, la presenza ad esempio di scuole a tempo pieno e di altre misure ‘parificatrici’ contribuisce ad alleviare le differenze nel patrimonio culturale e familiare, lasciando dunque spazio a un coerente ragionamento sul merito (diverso comunque dalla meritocrazia, che il merito lo mette al potere). Ma in presenza di significative differenze di partenza – come vediamo in Italia, dove ad esempio si dà per scontato che i genitori aiutino i figli coi compiti e gli paghino le ripetizioni – questo ragionamento è ridicolo. Resta invece aperta la necessità di recuperare e includere gli ultimi nella scuola e nella società, alla luce di una consapevolezza che è anche un lascito della vita e dell’insegnamento di don Milani.

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