Culture

A Cannes spente le luci, resta il cinema

Giù il sipario sulla Croisette, ma i film usciti dalle sale del festival francese ne fanno la rassegna cinematografica principe

Justine Triet, Palma d’Oro per ’Anatomie d’une Chute (Anatomy of a Fall) e altri premiati durante la cerimonia di chiusura del 76° Festival di Cannes
(Keystone)
29 maggio 2023
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E adesso? Adesso che luci si sono spente sulla Croisette e la vita quotidiana di Cannes continua, con chi affolla le spiagge mentre la gente di cinema e i festivalieri sono ritornati ai loro Paesi (perché il Festival di Cannes è come un’Olimpiade con persone in arrivo da ogni dove); adesso cosa succede?

Dopo qualsiasi festival di cinema – Berlino, Venezia, San Sebastiano, Tokyo; anche Locarno – una volta chiuso il sipario, tutto è finito. Cannes, però, non è così. Centinaia di film sono uscite da queste sale per invadere il mercato mondiale. Non solamente Indiana Jones o l’ultimo disegno animato della Pixar; non Wim Wenders o qualsiasi altro film. Sono i film di Cannes: un marchio di fabbrica indelebile e una garanzia. È questo che rende quello di Cannes il festival principe tra tutte le manifestazioni cinematografiche.

La sfilata

Ed è divertente pensare che la Mostra del Cinema di Venezia si trovi a cercare i suoi film tra quelli scartati da Cannes. A cominciare da quelli prodotti da Netflix, invisi sulla Croisette dove è stata sposata la causa dei film in sala cinematografica. Il fatto che il mercato mondiale delle sale cinematografiche sia cresciuto quest’anno del 25 per cento, a eccezione di alcuni Paesi tra cui l’Italia, non è segnale da poco.

Cannes, dunque, non è solo il Palmarès, non è solo una Giuria; ma è la magia di uno spettacolare amore per il Cinema. Per capire questa magia bastava guardare la cerimonia che ha preceduto la premiazione. Un rituale durante il quale attori e attrici, registi e produttori, politici e gente comune sono sfilati come soldatini ordinati per oltre un’ora davanti al Palais, come fossero serie indossatrici. E nessuno a lamentarsi, come mai si vede, in un gioco coreografico che, da solo, è Cinema.

Quel Cinema che a Cannes canta in ogni sezione e che non è unicamente blockbuster. Perché prima di tutto è la serietà di un lavoro, di quel fare cinema mai serializzato e mai frutto di una umiliante catena di montaggio determinata da processi politici e industriali.

La possibilità

Ecco allora la possibilità per lo spettatore di scoprire mondi cinematografici illimitati. C’è il film di successo indiano, come ‘Kennedy’ di Anurag Kashyap (pioniere dell’industria cinematografica indipendente e ancora oggi tra i cineasti più influenti di Bollywood), che racconta la storia di un detective assassino senza romanticismo ma legato a originali tradizioni narrative. C’è ‘Bread and Roses’ di Sahra Mani, dal vivo capace di dire in modo significativo e deciso il destino delle donne che vogliono affermare i loro diritti in Afghanistan e vengono percosse e uccise, non solo a Kabul. Donne che fuggono ad affrontare la povertà di Islamabad per non essere assassinate.

Ci sono film difficili da confrontare se non nel nome della qualità, come il necessario ‘L’Abbé Pierre – Une vie de combats’ di Benjamin Lavernhe, che va a rivedere e a ridare senso all’opera straordinaria di Henri Grouès, prete dalla salute cagionevole, combattente della Resistenza e deputato della Liberazione. Un’opera diventata leggenda, quella dell’abate Pierre (il nome che si scelse), uomo di pace impegnato anima e corpo contro le misere abitazioni in nome di una giustizia sociale imprescindibile dalla parola uomo. C’è ‘Hypnotic’, thriller alla Hitchcock secondo Robert Rodriguez: attualmente ai primi posti delle classifiche negli Stati Uniti, resta un film da incasso senza le implicazioni politiche e sociali che ha invece la pellicola sull’Abbé Pierre.

La periferia (del mondo)

È stato anche, quello di quest’anno, un festival che ha raccontato le periferie del mondo, realtà dimenticate dalle cronache globalizzate. Ci siamo trovati in quelle di Casablanca con il premiato in Certain Regard ‘Les Meutes’ di Kamal Lazraq, film che fa la chiosa al neorealismo per dire di un’umanità al limite, dove il sopravvivere vuol dire non essere sbranato dai cani; e in quelle di Marsiglia in ‘Salem’ di Jean-Bernard Marlen, lavoro che nega lo Shakespeare di ‘Romeo e Giulietta’ e irride il ‘West Side Story’ di Jerome Robbins e Robert Wise raccontando di Djibril, giovane comoriano di Sauterelles (difficile quartiere di Marsiglia) innamorato di Camilla, zingara del quartiere rivale dei Grillons. Nessun telegiornale può narrare meglio del nostro tragico tempo, chiuso al confronto e immerso nel disfacimento del quotidiano essere in guerra.

La vera eroina

E finalmente è stato il Festival delle donne. Al di là della Palma d’Oro a Justine Triet per ‘Anatomie d’une chute’; al di là di ‘How To Have Sex’ di Molly Manning Walker, che ha vinto Un Certain Regard mostrando la drammatica pressione esercitata dai media tutti sui giovani, per avere rapporti sessuali. Al di là anche di altri importanti film, c’è una figura di donna che resterà memorabile marchio di questo Cannes numero 76.

È quella – commuovente per la sua forza, per la sua indipendenza e per l’amore smisurato di cui è capace – ritratta da Aki Kaurismaki nel suo immenso ‘Kuolleet Lehdet’ (Les Feuilles Mortes). In questo film la grande attrice Alma Pöysti interpreta una donna di mezza età che è sola per un motivo non specificato, colta nel momento in cui viene licenziata dal supermercato in cui lavora per aver rubato nelle immondizie una confezione di cibo scaduto. Pronta a tutto, la donna accetta un impiego come lava-bicchieri in un bar, per il quale dovrebbe essere pagata in nero; ma il proprietario viene arrestato per traffico di droga. Senza perdersi d’animo, trova lavoro in una fonderia e, nel frattempo, ha il coraggio e la determinazione di costruirsi una storia d’amore con un alcolizzato perdente.

È questa donna, vera oltre ogni finzione, la reale eroina di un festival grande e unico. Altro che Indiana Jones.

Sulla Croisette

Una giuria col bilancino

Tutto previsto. Il Palmarès del 76° Festival di Cannes è stato valutato dalla Giuria guidata dal regista svedese Ruben Ostlund, già vincitore di due Palme d’Oro, con un bilancino da farmacista per non scontentare nessuno. I favoriti da pubblico e critica, i film di Aki Kaurismäki e Wim Wenders, non potendo essere ignorati, si sono dovuti accontentare rispettivamente del Premio della Giuria per il suo ‘Les Feuilles Mortes’ e del premio come miglior attore allo straordinario interprete del suo ‘Perfect Days’, Kōji Yakusho. La Palma d’oro ad ‘Anatomie d’une chute’ di Justine Triet era nell’aria e per la giuria un riconoscimento così importante a una donna era scelta quasi obbligata. Justine Triet è solo la terza donna a guadagnarsi la Palma d’oro, dopo Jane Campion (‘The Piano Lesson’, 1993) e Julia Ducournau (‘Titanium’, 2021). Non era il miglior film, ma è giustamente il miglior film da premiare per dare una svolta più femminile al misogino mondo del cinema.

Gran Premio della Giuria a ‘The zone of interest’ di Jonathan Glazer, riconoscimento all’originalità linguistica e narrativa di un film sull’incresciosa banalità del male, mostrando il privato dell’ufficiale nazista Rudolf Höß, comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Un film di algida bellezza. Il premio per la miglior regia è andato a Trân Anh Hùng per ‘La Passion De Dodin Bouffant’, e rende giustizia al gran lavoro di regia portato a termine con indubbia classe dal 50enne vietnamita naturalizzato francese. Di certo, con il suo film ha contributo a migliorare il gusto di migliaia di spettatori.

La miglior sceneggiatura a Sakamoto Yuji per ‘Monster’, diretto da Kore-Eda Hirokazu, premia un film sulla scuola, la nascente omosessualità e il peso di società incapaci di rispettarla. Il film ha vinto anche la Palm queer, premio dei film di tematiche omosessuali. Si è dovuto accontentare anche il maestro turco Nuri Bilge Ceylan, visto che al suo bel ‘Les herbes sèches’ è andato solo il premio alla miglior interpretazione femminile alla brava protagonista Merve Dizdar.

Di Wenders e Kaurismäki abbiamo detto; segnaliamo il meritato premio Camera d’Or per la miglior opera prima a ‘Bên Trong Vo Ken Vang’ (Inside The Yellow Cocoon Shell) di Thien An Pham, visto alla Quinzaine des Cinéastes; film in cui ambienti, tradizioni, morte e fantasmi si legano in un affascinante momento di gran cinema.

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