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Elio Petri che ci mise la faccia

Ne ‘Il cinema di Elio Petri’, edito da Gremese, Alfredo Rossi racconta il regista romano

Oscar al miglior film straniero nel 1971 per ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’
17 maggio 2023
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In una delle scene finali di ‘Un tranquillo posto di campagna’, film di Elio Petri premiato con l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 1969, pittori della domenica imbrattano le loro tele di rosso sotto gli sguardi compiaciuti e benevoli di gendarmi in uniforme: come nelle più tetre previsioni di Pasolini, la contestazione alla società capitalista è diventata essa stessa una parte, tollerata perché mercificabile e dunque disattivata e vanificata nel suo potenziale sovversivo, dei meccanismi che intende combattere.

In questo modo Elio Petri, intellettuale incline a portare su di sé, come una croce obbligata, tutti i mali del mondo, si arrovellava sulle contraddizioni e i dilemmi ideologici contro cui negli anni 60 e 70 andava a sbattere la pretesa di realizzare un’arte politicamente connotata e insieme popolare, dettata dall’urgenza di sollevare temi civili e sociali e di indurre gli spettatori a riflettere sulla realtà. Se il mezzo, come sentenziava all’epoca McLuhan, è il messaggio, anche il cinema, in quanto espressione della cultura di massa, diventava inevitabilmente un prodotto immesso sul mercato per generare profitti.

Politici

Ne ‘Il cinema di Elio Petri’, edito da Gremese, Alfredo Rossi ricorda le difficoltà incontrate dal regista romano per affermare la sua idea di cinema: “Accusarci di fare film politici per moda mi pare riduttivo e malevolo. Fare i film politici è stato ed è ancora andare, semmai, contro le mode, due sostanzialmente: quella degli intellettuali che privilegiano i film dell’alienazione e quella dell’esercente e dello spettatore, che adorano la commedia all’italiana. Significa poi andare contro i politici, poiché loro più degli altri amano negli intellettuali e nei ‘poeti’ la purezza, cioè il disimpegno”. Politici tra i quali Petri annoverava Giorgio Amendola, temutissimo pezzo da novanta del tetro Pci di Togliatti, ricordandone la domanda rivolta a un attonito Giuseppe De Santis, che da due anni cercava finanziamenti per un film sull’occupazione delle terre in Calabria: “Perché invece non giri un bel film sui pirati?”. “I film d’avventura”, chiosava amaramente Petri, “c’è chi li fa, mentre i film sui contadini non li fa nessuno. E il politico preferisce così”.

Di fronte a un cinema, come quello di Petri, che non vuole fornire slogan, verità preconfezionate, schematismi ad alta digeribilità e privi di lattosio, ma si ostina a rappresentare i problemi dell’uomo massificato in una realtà irriducibile in comodi stereotipi, il politico, privato della prospettiva di facili dividendi ideologici, preferisce un rassicurante cinema d’evasione. A tale proposito, Rossi cita molto opportunamente il regista Jean-Marie Straub: “L’Italia è il Paese più tragico che io conosca, a livello politico, nel quotidiano e nella natura. Dov’è questo lato tragico nei film italiani? Nei film italiani si è sempre cercato di rimuovere il tragico, dando l’impressione che in Italia non esistesse. Il novantanove per cento dei film italiani sono operazioni di rimozione”.

Un tragico che invece Petri affrontava a viso aperto, rappresentando personaggi, maschere, automi rinchiusi in trappole per topi e privati della possibilità di scegliere una via d’uscita. Lezione appresa dal teatro di Sartre, di cui aveva adattato per la televisione il dramma politico ‘Le mani sporche’, comparendovi à la Hitchcock: durante la prima puntata, al termine di una riunione politica, i partecipanti si congedano salutandosi col pugno chiuso; l’ultimo di loro è Elio Petri, che stringe la mano al compagno di partito lanciandogli un lungo sguardo vagamente canzonatorio, come a ratificare, mettendoci la faccia a scanso di equivoci, una definitiva presa di distanza.


Il libro, edito da Gremese

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