laR+ Il ricordo

Flavio Cotti, passione e rigore

In due incontri locarnesi si è celebrata la multiforme attività dello statista, scomparso nel 2020, del quale ripercorriamo la storia

Flavio Cotti
(Ti-Press)
15 maggio 2023
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Forse, ha avvertito l’anfitrione Luigi Pedrazzini, è troppo presto per stilare un bilancio a tutto tondo di uno statista da poco scomparso come Flavio Cotti (1939-2020). Spetterà agli storici, quando tutti gli archivi – privati e pubblici – saranno disponibili, allestire un ritratto complessivo della sua personalità e del suo operato. Concordiamo, ma intanto molti elementi preziosi sono emersi durante i due incontri che Il Centro e altri sodalizi hanno voluto dedicare alla multiforme attività di Cotti. Una carriera per certi versi esemplare, che dal comune di Locarno l’ha portato al vertice della Confederazione: due volte presidente, nel 1991 e nel 1998. E già queste due date ridestano turbamenti, come ha ricordato Moreno Bernasconi nella sua allocuzione (i lettori troveranno nel volume ‘La Svizzera nell’ora della verità’ una scelta di discorsi tenuti nell’anno del settimo centenario del paese, ora riedito da Dadò).

Una vocazione precoce

Esaminando la formazione di Cotti, il suo itinerario, vien proprio da esclamare che “politici si nasce”. Un percorso in cui fede e impegno corrono paralleli dandosi la mano e fecondandosi a vicenda, dalle aule del Papio al collegio benedettino di Sarnen e infine all’Université de la miséricorde di Friburgo, dove nel 1962 ottenne la laurea in diritto. Gli anni Sessanta scuotono le coscienze; anche i partiti politici risentono dell’insofferenza che serpeggia tra i giovani, conservatori inclusi. È questa la fase del Cotti “socialisteggiante”, ma in verità in lui agisce un’altra ispirazione, che è quella riconducibile alla dottrina sociale della Chiesa e ai moti di rinnovamento che provengono dal Concilio Vaticano II. Nel suo bagaglio culturale confluiscono i testi di Sturzo ma soprattutto di Jacques Maritain, del teologo Gustave Thils, di Giannino Piana (ne ha parlato Lorenzo Planzi). È il personalismo la fonte da cui Cotti ricava sia la sua visione del mondo, sia il suo modo di stare in politica, all’intersezione di giustizia, pluralismo, federalismo, democrazia. La dignità della persona dunque, ma anche l’ambiente (il “creato” nella terminologia cattolica) in cui gli esseri umani vivono, spesso assumendo un atteggiamento predatorio. Anche questo aspetto ecologista entrerà nel suo raggio d’azione, quando i boschi inizieranno a deperire sotto gli occhi attoniti dell’opinione pubblica (piogge acide, inquinamento, bostrico).

Gli anni nel governo ticinese

Dall’esperienza in Consiglio di Stato alla testa del Dipartimento dell’economia pubblica dal 1975 al 1983, in una fase poco felice per l’economia e le finanze del cantone, trae la conferma di un suo antico convincimento: che per risollevare le sorti delle imprese occorre incoraggiare l’imprenditoria privata, riservando all’amministrazione la funzione di vigilanza e di rispetto delle regole. “Sussidiarietà”: ecco un altro principio-cardine della sua “Weltanschauung”. Il che, si badi bene, non significa attesa e disimpegno, ma la messa in campo di tutti i provvedimenti possibili atti a promuovere, non a mortificare, l’iniziativa privata. Obiettivi saranno la creazione a Biasca di una zona industriale, il rilancio del turismo all’insegna della qualità, il sostegno alle regioni di montagna. Questo approccio, ha sottolineato l’ex direttore dell’Ufficio delle ricerche economiche Remigio Ratti, gli derivava da una metodologia che stava prendendo piede nella saggistica d’oltralpe sotto il nome di “politische Planung”. Certo, il termine “pianificazione” un po’ spaventava, per i fremiti che suscitava nelle segreterie dei partiti (la “programmazione economica” del centro-sinistra italiano o addirittura i piani quinquennali sovietici). D’altra parte, riconobbe Cotti, altra via non c’era, la pianificazione (accompagnata dall’aggettivo “cantonale”) era assolutamente necessaria se si voleva ridare ossigeno e coerenza all’azione di governo, e anche al parlamento, troppo spesso paralizzato dal gioco degli interessi contrapposti. Non era insomma questione di “statalismo”, come qualcuno paventava, ma di un ruolo attivo e propositivo da parte dell’esecutivo. Dal grembo di questo metodo videro poi la luce il Rapporto sugli indirizzi, le Linee direttive, il Piano finanziario, il Piano direttore. Pianificazione da un lato, razionalizzazione dall’altro: una via percorsa anche nelle legislature successive.

Dal Ticino a Berna

Nel 1983 Cotti cede il posto a Renzo Respini, ma non abbandona l’agone politico. Al contrario, dai banchi del Consiglio nazionale il suo sguardo si arricchisce e si allarga, fino ad occupare la presidenza dei democristiani svizzeri (CVP). Da quella alta pedana il salto in Consiglio federale è scontato, e infatti nel dicembre del 1986 Cotti succede ad Alphons Egli alla testa del Dipartimento degli Interni, in realtà un conglomerato disperso di uffici, non facile da gestire, che dalla sanità si estende agli istituti culturali passando per l’ambiente e lo sport. Ma lo stile, anzi il “piglio” di Cotti nel guidare gli alti funzionari risulta subito evidente, e anche temuto: le convocazioni nel suo studio alle sei di mattina sono rimaste leggendarie (ma Cotti era in ufficio già alle cinque…).

Pure questi anni non furono facili, soprattutto nell’ambito sanitario, con lo spettro dell’Aids e della droga che continuava a mietere vittime, e con un’assicurazione malattia che andava profondamente ripensata. E poi la salvaguardia dell’ambiente, ricorrente cruccio di Cotti, che Raffaele De Rosa ha voluto sottolineare nel suo saluto di venerdì, riportando testualmente le sue parole: “il rapporto dell’uomo moderno con la natura è degenerato in disordine permanente. L’uomo fa un uso smodato, spesso abusivo della natura, ne intralcia e ne riduce lo sviluppo… non sono profeta, ma resto convinto che la problematica ambientale caratterizzerà sostanzialmente i prossimi secoli della specie umana”.

L’ultima tappa

Nel 1993 passa a dirigere il Dipartimento degli affari esteri: è l’ultimo gradino di una carriera che si concluderà nel 1999, dopo aver pilotato il fragile veliero elvetico attraverso burrasche impreviste e anche battendosi contro venti contrari interni. Gli ambasciatori che hanno preso la parola sabato mattina hanno evidenziato con quanta passione Cotti affrontasse questa nuova tappa, una vera e propria “missione”, cercando in tutti i modi di favorire i processi di pace nelle aree di crisi, dalla Russia ai Balcani. “Mediazione”, a suo giudizio, non era una formula di comodo, ma un compito (“Auftrag”) dai risvolti etici, nel solco della migliore tradizione cristiana, da Leonhard Ragaz a Denis de Rougemont. La neutralità non poteva significare indifferenza di fronte alle ingiustizie e alla violazione dei diritti dell’uomo.

La passione per la storia

Cotti amava la storia, leggeva biografie e saggi, voleva sapere, era “un uomo di cultura” (Tettamanti), un politico che sollecitava la discussione e il confronto. Durante il suo mandato esplose un “affaire” che avrebbe potuto tramortire il paese: l’accusa, mossa dal Congresso ebraico mondiale e dagli Stati Uniti, di aver appoggiato la Germania nazista, con le principali banche elvetiche nelle vesti di ricettatrici dell’oro e degli averi sottratti criminalmente agli ebrei. Lasciar dormire questi scheletri nell’armadio non era più possibile. Di qui l’idea di affidare ad una commissione indipendente di storici diretta dal professor Bergier il compito di far luce sui rapporti con il nazionalsocialismo: una libertà di ricerca incondizionata, destinata ad aprire un dibattito che nelle facoltà accademiche prosegue tuttora (nell’opinione pubblica è invece scomparso).

L’Europa: un nodo rimasto tale

Cotti è sempre stato europeista. Aveva seguito fin da studente dell’associazione Lepontia il cammino della Comunità economica europea, gli ostacoli che aveva dovuto superare, le resistenze dei paesi che non intendevano cedere una frazione della loro sovranità a Bruxelles e Strasburgo. Ma poi questo sogno si infranse di fronte all’ascesa della nuova Udc e ai movimenti ostili a ogni avvicinamento all’Europa unita. La votazione del 6 dicembre 1992, con il no allo Spazio economico europeo, costrinse il Consiglio federale a congelare la domanda di adesione per imboccare la via degli accordi Bilaterali. Una manovra che sconfessava le idee di Cotti: ma questa era la volontà che la maggioranza aveva espresso e poi confermata in numerose votazioni popolari.

Cotti era esigente, detestava l’impreparazione, la sciatteria, la chiacchiera inconcludente. Come ticinese, aveva a cuore le minoranze e il loro patrimonio linguistico; e come noto, impresse un’accelerazione al progetto universitario della Svizzera italiana. Anche le rivendicazioni delle donne, dal suffragio alle quote, trovarono in lui un interlocutore attento e sensibile. Purtroppo, dopo le dimissioni, Cotti si è come ritirato nel suo guscio privato, rinunciando ad intervenire sui temi che lo appassionavano, in base al motto “servir et disparaître”. Peccato.

E la valutazione critica? I due incontri locarnesi hanno indicato alcune strade, alcune piste d’indagine. I materiali da esaminare sono copiosi, sia a Bellinzona che a Berna. Toccherà ai ricercatori immergersi in queste carte con l’acribia che meritano per poi provare a completare il ritratto che amici e collaboratori hanno iniziato a schizzare con le loro testimonianze.

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