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I dottori nel Sei-Settecento? Terapie semplici e doppi pareri

‘I consulti di L. Pacino Viti e di altri medici del suo tempo’ ci porta negli studi tra il 1682 e il 1737. Ce li racconta il curatore Benedino Gemelli

Il volume e, a destra, ‘Ritratto di Marcello Malpighi’ attribuito a G. B. Carbone (1614-1683)
(Galleria Borghese, Roma)
14 aprile 2023
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Una «fotografia» della medicina pratica tra la fine del Seicento (1682) e il 1737. «Come se riuscissimo a vedere cosa succede dentro uno studio medico dell’epoca». È il cosiddetto ‘codice L. Viti’, dal nome del medico di Perugia al centro del volume ‘I consulti di Ludovico Pacino Viti (1662-1732) e di altri medici del suo tempo’ (FrancoAngeli, 2022). Una testimonianza «eccezionale, anche perché non attestata da nessun altro genere di documento», afferma Benedino Gemelli, curatore del libro e autore dell’ampia introduzione generale.

I consulti firmati da Ludovico Viti o a lui attribuibili sono una settantina, ossia circa la metà dei documenti inclusi nel codice; si contano in totale 37 medici estensori di consulti, tra cui spiccano le firme di Virginio Cocchi (18 consulti) e Marcello Malpighi (12). La corrispondenza è incentrata su Perugia e Umbria, ma si estende fino al Veneto, all’Emilia-Romagna, alle Marche, al Lazio. Si tratta di lettere che si scambiavano i dottori del tempo, chiedendo o fornendo consigli su casi molto concreti. Lettere che, in tal senso, sono «documenti vivi». Si va da scritti brevi, che riassumono un caso clinico – ci spiega Gemelli –, a resoconti molto ampi nei quali vengono descritti minuziosamente le caratteristiche del paziente, il percorso della malattia, le cure somministrate fino a quel momento e con quale reazione, le richieste di un secondo parere. «Troviamo di norma risposte assai articolate, date dai medici ai quali era stata chiesta un’opinione. Generalmente non emergono dissidi di fondo tra l’azione intrapresa e quella suggerita per continuare il trattamento del paziente. Il dottore che rispondeva alla domanda di un altro curante era sempre diplomatico e rispettoso nei confronti del collega, di cui elogiava la cura intrapresa, pur suggerendo al contempo altre vie».

Dai testi si evince che «non erano solamente i medici, diciamo così, di rango inferiore a chiedere consigli ai dottori di primissima categoria. Un confronto era in effetti costante anche tra gli stessi luminari. Ciò dimostra che la medicina non era una disciplina chiusa, ma ha sempre avuto bisogno di collaborazione». Medicina che, «oltre a essere scienza, è pure arte. E che, in particolare proprio sino a fine Settecento, ha portato con sé una lunga tradizione: dai tempi di quella che per noi è la medicina scientifica, cioè da Ippocrate (quinto secolo a. C.), passando anche dagli arabi per poi attraversare la cosiddetta rivoluzione scientifica». Rivoluzione scientifica che «ritroviamo nella medicina dell’epoca degli scritti del ‘codice Viti’ – aggiunge Benedino Gemelli –: pensiamo all’avvento del microscopio o ai progressi della ricerca anatomica». La terapia non esclude tutto ciò che nei secoli la medicina ha applicato per la guarigione; «bensì conserva e accoglie i contributi di ciò che noi definiamo il progresso scientifico (nuovi ritrovati, ricette, preparati). Diventa così una sorta di crogiolo». Nei consulti in questione emerge come il contesto terapeutico dei tempi «è quello che parte da Ippocrate, poi ‘rielaborato’ da personaggi come Francesco Redi, medico del Granduca di Toscana. La metodologia era sostanzialmente quella del medicare con semplicità; «quindi non ricorrere a un’infinità di rimedi. Ma soprattutto (ed è questo il principio ultimo) il contesto terapeutico era quello del medicare rispettando la natura. Ciò riporta alla mente Francesco Bacone, il quale già sosteneva che si può vincere la natura solamente obbedendole e mai forzandole la mano. In estrema sintesi, per quanto riguarda la terapia il pensiero che emerge anche dai testi raccolti nel ‘codice Viti’ era quello secondo il quale “se non giova, almeno non nuoccia”. Si manteneva cioè un principio di prudenza terapeutica, che mi pare sia attuale e indicativo anche al giorno d’oggi».

Approdato in Francia e poi rientrato in Italia, il codice è apografo. «Non c’è la prova che sia stato redatto da Viti, ma – indica Gemelli – molti elementi convergenti, dopo attenta analisi, portano a far supporre che il corpo principale della raccolta sia stato ideato proprio da Ludovico Pacino Viti, il quale ha poi incaricato persone a lui vicine di ricopiare o trascrivere i consulti. Pochi, invece, i consulti aggiunti dopo la sua morte (1732)». Appartenendo a collezione privata, il codice rimarrà inaccessibile al pubblico. Questo libro è dunque occasione unica per prenderne visione, scoprendo magari qualche caso interessante. «Come l’epilessia di un fanciullo ricondotta allo spavento preso dalla madre durante la gravidanza. O la prescrizione della musica». In talune occasioni era lo stesso Ludovico Pacino Viti a ritenere che le note rimettessero in equilibrio gli spiriti. «Intrigante è la nozione di spirito, quell’elemento immateriale che percorre tutto il corpo dandogli la vitalità e l’energia».

Gli autori

Benedino Gemelli, curatore del volume, è stato docente di latino e greco al Liceo di Bellinzona e ricercatore per il Fondo Nazionale Svizzero; è alla terza opera sul tema dei consulti medici d’inizio Settecento. Alessandro Menin, medico di medicina generale e fitoterapia, ha operato la sintesi dei dati biografici concernenti Viti, anche con documenti inediti.

La presentazione a Bellinzona

‘I consulti di Ludovico Pacino Viti (1662-1732) e di altri medici del suo tempo’ verrà presentato lunedì 24 aprile alle 18 al Liceo cantonale di Bellinzona (blocco A dei prefabbricati, lungo il fiume Ticino, aula multimediale segnalata all’entrata, parcheggi a disposizione). Alla serata – organizzata dal Liceo in collaborazione con l’Associazione Italiana di Cultura Classica, Delegazione della Svizzera Italiana – interverranno Cari Platis Roberti, medico anestesista alla Clinica Sant’Anna di Sorengo, con attività anche all’Ospedale Universitario di Ginevra; Francesco Luzzini, Marie Curie Fellow all’Università Ca’ Foscari di Venezia e alla Johns Hopkins University di Baltimora; e Benedino Gemelli.

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