laR+ L’intervista

Quando l’immaginazione andò al potere

Più che distopia, pare una discussione sull’arte e sulla vita: in dialogo con Sergio Roic sul suo libro ‘Feríta. Giovanna D’Arco, anno 1971’.

Sergio Roic
(Ti-Press)
22 febbraio 2023
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Sergio Roic. Iniziando a leggere il suo libro si viene trascinati in una narrazione che narrazione non è, per lo meno non nel senso tradizionale del termine. Non c’è una vera e propria storia, ma una serie di flash su singoli personaggi, singole situazioni, ricordi, identificazioni in ricordi altrui, disquisizioni filosofiche, immagini poetiche e molto altro ancora. Possiamo dire che la decostruzione di cui si parla nell’introduzione si possa applicare a tutto il libro? Tutta l’opera, in fondo, è una decostruzione, cioè un calarsi nei panni di qualcos’altro: gli attori che assumono la vita del regista, la Francia che diventa la Russia, il film che diventa realtà, la realtà che diventa film. Il libro è dominato dall’incertezza. Cito dalla sua opera: "Io sono (racconto) le prime battute di una storia che vuole narrare una realtà propria, doppia. Le cose, come le vedi e tocchi, e dietro di esse un universo di possibilità e vaghe promesse".

Sì, il tema dell’incertezza è presente in diverse mie opere. L’uomo con il suo linguaggio crea un intero mondo, ma crea anche il dubbio nei riguardi di questo mondo, un’insicurezza diffusa a proposito di ciò che è e ciò che non è. Il linguaggio ci ha permesso di aprire una finestra su diversi mondi possibili, sollevando però al contempo quesiti inediti. Se decidiamo di seguire il filosofo del linguaggio Derrida (il modello usato per la figura di Eric Feríta), andando dentro la carne e il sangue del linguaggio, dovremmo chiederci come mai abbiamo scelto proprio questo sistema di ragionamento - che passa anche dal cinema con la combinazione delle immagini - per cercare di comprendere la realtà, realtà che in fondo non è cambiata rimanendo uguale a se stessa. Non è magari che i nostri linguaggi che la descrivono entrano un po’ in competizione con essa? La decostruzione, secondo Derrida, dovrebbe permettere di capire quanto il nostro modo di guardare la realtà si sia allontanato dalla realtà stessa.

Dando uno sguardo alla quarta di copertina ci si aspetta un romanzo distopico, sì, ma soprattutto politico, ricco di descrizioni e fatti inerenti a quella che avrebbe potuto essere la società in Francia se la rivoluzione del Sessantotto avesse attecchito. E invece no: le descrizioni della società utopica bisogna andare a cercarle, non ce ne sono quasi e se ci sono, solo in modo accennato e soprattutto verso la fine. Nel libro non si parla tanto di politica, quanto di cinema e, in senso lato, di arte. Potrei azzardarmi a dire che il libro è una discussione sull’arte e sulla vita? O, a tratti, anche una critica all’arte stessa?

Sì, nel libro è presente sia una critica del linguaggio che una critica dell’arte. L’artista, in questo caso il regista Belogradski, è certamente alla ricerca di un immaginario da anteporre alla realtà nuda e cruda. È il film che conta, le sue immagini, i suoi dialoghi, una sua logica intrinseca che più che dare risposte, pone domande. E la domanda principale del regista, come in certi film surrealisti, è: fino a dove posso spingermi? In che direzione devo andare?

Belogradski è un sondatore dell’animo umano. Lei nel libro scrive: "Cercare, cercare sempre, cercare fino allo sfinimento, fino alla perfezione delle percezioni e delle forme". Non solo: Belogradski va oltre, usa la vita dei suoi attori per creare man mano il canovaccio della storia e, anzi, mischia la loro biografia con la propria.

Il film di cui si parla nel mio libro è una libera rappresentazione della soggettività, di ciò che è personale, privato, di ciò che appartiene al regista. E proprio in questo, nella decostruzione del condiviso, del pubblico, la decostruzione del regista e del suo rivale Feríta ha effetto. D’altronde, lo stesso Tarkovskij, che a un certo punto cito, afferma: "Un artista si nutre della propria infanzia per tutta la vita, da come è stata la sua infanzia dipenderà la natura della sua arte". Parafrasando si potrebbe dire: il linguaggio che adoperiamo, le parole e le immagini di cui ci serviamo per descrivere la realtà, sono condizionati dal primo e originale modo in cui ci siamo posti, giovanissimi, di fronte ai fatti e alle cose.

Ma Belogradski non è anche una figura esagerata, una caricatura della figura dell’artista?

Forse una caricatura no… però un po’ lo prendo in giro, visto che lui nell’atto della creazione vuole il controllo assoluto, non fa compromessi e allo stesso tempo, cosa che può sembrare una contraddizione e invece non lo è, brama di avere la libertà assoluta.

Però in certi passaggi mi è sembrato che lei calchi la mano, che sia ironico nei confronti del suo personaggio.

Sì, questo è vero, per esempio quando descrivo un Belogradski che fa spaventare Irene chiedendo a Georges di urlarle in faccia o quando vuole che lo stesso Georges gli dia un pugno oppure quando a Cannes fa strane allusioni con il funzionario del ministero della cultura francese. È senza dubbio un personaggio di grande calibro, ma anche sopra le righe. Il filosofo Feríta, invece, è uno che come capita a certi intellettuali, vorrebbe giocare con il potere, che vorrebbe fare il bene, ma che alla fine si ritrova invischiato nel male.

Per questo lei verso la conclusione del libro gioca con il termine "ferita", per sottolineare come la rivoluzione, l’utopia di cui parla, in fin dei conti non abbia portato a nulla e sia stata solo una sofferenza? Come lei stesso scrive: "Attribuì un grande significato al proprio cognome che, pronunciato all’italiana, suonava come un’ammissione di colpa o un grido di dolore".

Certo, io descrivo due realtà che a un certo punto collidono, con la Francia dell’epoca che si chiede come andare a sinistra senza entrare nell’orbita sovietica. A lungo andare ciò crea una catastrofe distopica, alla quale accenno senza però svelare i dettagli. Diciamo che il finale è piuttosto surrealista. È anche un ammettere che la sinistra non è purtroppo sempre capace di fare il bene a cui aspira.

Nel libro si parla anche di amore, in particolare di quello del protagonista per Irene / Giovanna D’Arco: "Mi innamorai di Irene perché raccontava le storie meglio di me. A dire il vero, lei stessa era una storia ed io avevo una gran voglia di conoscerla".

Nella storia tra Georges e Irene bisogna sottolineare il fatto che, durante le riprese del film, il regista plasma la ragazza facendola diventare la donna forte di cui ha bisogno. Lei quindi cresce, si trasforma, mentre lui rimane lo stesso. Il rapporto tra Georges e Irene finisce dunque per assomigliare a quello tra Orlando e Angelica dell’Ariosto: più lei fugge, più si fa amare.

Rapporto in cui la donna vince…

Certo, la donna quando si appresta a fuggire vince sempre!

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