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Elogio dell’assenza e dell’erranza

Alla maniera di Robert Walser, che nella sua passeggiata ha lasciato delle tracce dietro sé, camminiamo sulle nostre tracce

Erranza
20 febbraio 2023
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"Assenza, più acuta presenza…"
(Attilio Bertolucci)

L’esperienza del vuoto, del distacco, inizia a manifestarsi quando il dolore si fa avanti giorno dopo giorno, con intensità diverse. Il bivio è uscire dalla rassegnazione per aprire un dialogo con noi stessi e gli altri, superando la fatica del ricordare, nostalgia dei luoghi e dei volti. La nostalgia si posa non solo verso ciò che abbiamo vissuto, scaturisce pensando anche ai momenti in cui qualcosa poteva accadere e non è stato, vene sotterranee che si espandono naturalmente, l’orizzonte dove figure perdute tornano a parlarci, interrogarci. Allora, seguendo la passeggiata di Robert Walser che ha lasciato delle tracce dietro sé, il sentimento del mondo si manifesta in un atlante a cui dedichiamo tempo e che portiamo con noi; qui, sono stati i colori dell’aria, la fragranza del mattino, il cortile sotto casa dove una palla logora sfiorava dei garage chiusi in un turbinio capace di far salire la polvere al cielo.

Ora, l’assenza dei bambini figli diventati grandi, sparsi in luoghi diversi, ritrovati qualche volta sull’uscio di casa al bordo di una strada meno arrendevole di prima, muove dal silenzio qualche parola. Tu stavi qui, dico, io là. E adesso? Non possiamo accogliere tutto, subito, il desiderio di cui ci ha detto Lacan spinge a riconoscerne l’importanza senza pensare di esaurirlo in un attimo. L’assenza, dopo il trasalimento, porta la sua prodigiosa azione creando lo spazio per attenzioni grandi e piccole, tutto quello che poteva spegnersi nella rinuncia fa capolino, lo spirito avverte la segreta alleanza con il naturale. La grondaia perde acqua, la guardi nella sua sfida per non crollare. Intorno alla città un ordine quasi eccessivo, il centro dà conto di un’economia stretta tra interessi, investimenti legati a una dissipazione senza fine, né legge; tempi dell’abbondanza, dello scarto e della miseria. Le categorie si oppongono alla differenza, confiniamo e limitiamo, lo straniero è scacciato, rimosso. Nel passeggiare arrivo alla soglia di un roveto; non c’è nessuno, allora mi fermo, osservo. L’aleatorietà qui è di casa ma proprio per questo ho la sensazione che il posto abbia una sua identità, ventre caldo dove l’umano si fa umile, un ritorno a casa dopo tanto pellegrinare.

Roveto

Vale come habitat, ascolta la nostra crisi, luogo che ricrea. Tutto quello che vedo è una mirabile opera cresciuta nel tempo, foglioline sporgenti, rami pieni di spine che si inoltrano fino a toccare un muro di pietra, l’antro in cui piccoli uccelli vanno a riposare, attenti a quanto avviene intorno, il rumore di una tapparella chiusa, il camioncino della frutta a cinque, dieci euro. Il roveto, nonostante l’apparenza, è campo aperto per chi vuole seguirne l’architettura, la storia, il divenire impercettibile della materia. La sua forza si pone davanti a occhi stanchi, addomesticati da immagini continue, esplosive, schermi inquietanti. Nei colori sembra emergere il marrone, i suoi tratti espressivi si trasfigurano diventando rossi e aranciati grazie a piccole bacche presenti alla memoria delle stagioni, testimoni del tempo, persistenti.

Il roveto si spinge oltre, intesse un dialogo con le piante, l’erba cresciuta disordinatamente, priva di simmetrie. Custodire, tenere in sé la natura che nelle periferie nonostante tutto resiste, cantico di figure e forme vegetali che orna i lati della ferrovia, il legno di un palo usato per un cavo elettrico molti anni fa, ancora eretto. Viviamo una deposizione, il vuoto si fa assenza, lambisce un’isola scarna, una mano saluta, poi una voce. Se la giornata è tersa si intravedono altre presenze, fino alla sera quando un nuovo scenario prende corpo, esseri notturni, fuochi accesi, segni palpabili. Forse, questa volta Ulisse rinuncerà al suo cammino, non si farà legare dai fedeli marinai per evitare il canto delle sirene, lui stesso che ha lasciato un canto alle muse contemporanee, l’esercizio del dovere, la rinuncia alla bellezza.

Una fabbrica

La città sorprende, a pochi metri dal centro di Como percorrendo la strada multietnica, la babele che attrae senza respingere, sento gli odori del pane fresco e delle carni arrostite, una preghiera arriva dalla grande casa scrostata. La stradina a lato porta sul Viale Giulio Cesare, trafficato. A metà percorso, girando la testa, un frammento rapido, visivo, coglie la struttura di una ex fabbrica, pareti grigie con qualche muschio selvatico cresciuto appena sotto il tetto. La storia e frenesia della città, le fabbriche; la penombra delle cicatrici. Eppure, basta poco per immaginare la vita di uomini e donne nel secolo scorso, moto e biciclette sotto il capannone, alfabeto novecentesco che si snoda dalla Ticosa alla statale che porta a Milano e prima ancora a Sesto, al cospetto del grande scheletro della Falk, cuore e destino di migliaia di vite.

Così, per un attimo, tornano gli echi della militanza, le bandiere rosse, i cortei. Permane tutto, in fondo, anche se non ci sono più gli operai, le donne intente a raccogliere i materiali prodotti, le tute blu. Si prolungano adesso i canti, le vigilie della festa, il momento della sirena a fine lavoro, l’uscita. Adesso l’immagine è nitida per la perseveranza dello sguardo, dai vetri rotti passa una luce di riflesso, luce biancastra al neon, la fila interminabile di lampadine accese, grandi e minute, quelle per un lavoro di precisione o di routine, le mani sicure, rapide. Saldare, montare, livellare. Fili, telai, frese, cavi a scorrimento. Fermi di fronte all’antico e al presente, i ricordi sono avvolti da una breve eternità, foglie fluttuanti. La pelle si tende, i pori aperti per respirare il possibile, uno, due passi in là. Pazienti, possiamo catturare quelle ‘immagini del risveglio’ di cui ha scritto Gaston Bachelard a proposito dell’incisione, le troveremo negli angoli ombra della rêverie che attende di essere vissuta.

E noi con cosa incidiamo? Sospesi, attratti da un bastardino nero che viene incontro saltellando, narreremo più tardi e magari ci vorranno giorni prima di farlo. "Noi non rispecchiamo il mondo che ci illudiamo di dominare, semplicemente narriamo in presenza di un mondo". Ce l’ha detto il filosofo Aldo Giorgio Gargani nelle sue straordinarie riflessioni sul tema della narrazione.


Assenza

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