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‘La mia è una poetica dell’incontro, delle erbe di muro’

Alla scoperta dell’ultima raccolta di Alberto Nessi, guidati dall’autore in un intarsio di esistenze umili per coglierne la bellezza al di là dell’utilità

‘La finestra è una specola che mi permette di vedere senza essere visto, standomene in disparte, solitario e solidale’
(Alberto Nessi)
23 dicembre 2022
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Una ricognizione in punta di penna attraverso la propria terra d’affetti e ricordi, tra le piante comuni e le esistenze dimesse, tra gli interrogativi e le ombre che turbano l’anima, alla ricerca di parole in risonanza col mondo per lenire le ferite della vita.

È quanto propone Alberto Nessi nella sua nuova raccolta in versi dal titolo ‘La seconda bellezza. Poesie vegetali’ (edizioni interlinea), di cui in prima persona ci spiega il significato.

«Per ‘seconda bellezza’ intendo la bellezza che assumono certe vite in certi momenti, come dice Gustave Roud nella citazione che ho voluto nell’epigrafe; è quella che assumono le cose al di là della loro utilità. Ed è anche la bellezza che troviamo nei poeti romantici tedeschi. Non è la bellezza della natura, ma quella contenuta nella poesia. Come dice William Carlos Williams: "La rosa appassisce / e si rinnova per mezzo / del seme, naturalmente, / ma dove / fuorché in poesia / non subirà alcuna / diminuzione / del suo splendore?"».

Nessi, come consolidato nella sua poetica, modella i versi sul respiro ampio di chi immobile o con lento incedere volge lo sguardo limpido a inquadrare le individualità. Il glicine, il giaggiolo, la ginestra, le susine verdi, l’aglio orsino sono i titoli di alcune poesie. Distingue, nomina, dà importanza alle cose minime di tutti i giorni, nobilitando le minuzie: il nido di "stecchi venuzze rimasugli stipe / brandelli di clematide briciole – / com’è simile / a una mano che scalda". C’è identificazione empatica con il vivente e l’intarsio di voci quotidiane di cui fanno parte anche quelle delle piante, definite "la famiglia infinita / delle erbe dentro le quali / brulica la mia vita". Una vastità che ci eccede e di fronte a cui ci scopriamo ridimensionati.

Pare dirci che se prestiamo attenzione alle componenti del regno vegetale e alle "correspondances", fioriscono le occasioni di incontro, comunicazione e rimessa in prospettiva?

«Una premessa. Per ‘poesie vegetali’ non intendo solo poesie che hanno come tema la vegetazione, ma anche poesie intese come vegetali, come organismi viventi: questa la mia idea di poesia. Sì, frequenti sono le occasioni d’incontro, perché la mia è proprio la poetica dell’incontro, il contrario di quella del narcisismo. Incontri quotidiani, di gente comune e, appunto, di presenze vegetali umili: io prediligo non le orchidee, ma le erbe di muro».

E al pari di quello vegetale, il campionario umano è vasto: troviamo il vecchio all’Osteria Centrale, la cameriera del Caffè della Posta, la donna che vedeva il diavolo, il ragazzo gonfio di metadone. Ma anche una sorta di toponimia personale con nomi ancorati a gesti e luoghi: il Rico che arrancava in salita con la sua carrozzella, l’Enrichetta che curava le petunie del prete, la Ada che usciva dai portoni i pomeriggi di agosto.

"Sì sono io, ma sono anche un po’ / gli uomini che mi hanno preceduto su queste balze"; "io sono anche un po’ quei fuggiaschi", scrive Nessi, che guarda con partecipazione ai sofferenti anche oltre i confini del suo Mendrisiotto. "Gli alberi sentono la tempesta che sradica / deboli schiavi braccati / lungo le frontiere d’Europa"; "Stasera il cielo sembra il mare / dove annegano i migranti"; "Andiamo / sul confine della bellezza oltraggiata / dalla quotidiana indifferenza". Più volte lo scrittore ha dichiarato che per lui l’universale è il locale meno i muri, ciò che articola in una geografia che è provinciale ma che al contempo desidera aperta.

Si affaccia anche alla balaustra del tempo, guardando indietro verso la storia. Quella del "secolo oscuro"; fatta di "gambe spezzate, laringi bruciate / carni divorate, veleni nell’aria". Gliela ricorda la caserma della guardia di frontiera, lungo il suo peregrinare, dove "giace / la ferocia degli anni di guerra". E la mente va agli ebrei "braccati anche dai nostri / perché, così, mentivano i figli di Tell, / la barca è piena". Sono parole di chi rifiuta l’ipocrisia e l’assuefazione alla tragedia, di chi fa una poesia nutrita dall’impegno civile ma scevra di propaganda.

Il suo punto di vista poetico è spesso dietro a una finestra o un finestrino che ritagliano scene del mondo. Nella scelta di questo "dispositivo di audiovisione" c’è una certa nostalgia per il distacco da ciò che sta fuori? Ha assunto una valenza particolare con la pandemia?

«No, non è nostalgia. Per me la finestra è una specola che mi permette di vedere senza essere visto, standomene in disparte. "Solitario e solidale" è il mio motto, come quello di Albert Camus. Per vedere bene bisogna prendere una certa distanza dalle cose. Certo, con il confinamento questa distanza si è fatta più drammatica, come dico nel mio ‘Corona Blues’. Ma questo è un atteggiamento sempre presente nella mia opera».

E del senso di solitudine sono pervasi numerosi componimenti. "Resta il vuoto / che mi prende quando la luce va via / e rimane, ninfa in ombra, / la malinconia". Il pensiero volge ai celebri versi di Salvatore Quasimodo: "Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera". In tale condizione di spaesamento, molteplici sono gli interrogativi e i dubbi che vorticano negli uomini in cerca di un senso al proprio transito esistenziale. "Chi sono io?"; "Dove abitano gli scomparsi?"; "Vedrò ancora la prossima fioritura?". Quella di Nessi, come lui stesso dichiara ne ‘I cachi di Giorgio Orelli’, è "una poesia antica, / fragile, ma non decrepita, spero"; e "cosa vuol dire antica, se non carica / di ferite, di domande / senza risposta…". Ma ecco venire talvolta in soccorso scorci di incanto: "Siamo trottole spinte / da una mano invisibile (...) Va bene, ma allora (...) perché le sorrido quando il sole verso sera / filtra tra le foglie del cespuglio?". E viene in soccorso pure la memoria, come il mondo scomparso dell’infanzia quando "si grattavano nòccioli di pesca / contro il muro nei lunghi pomeriggi / per farne anelli di sposa". Quando "scrivevo / in lapis sul quaderno ufficiale del Canton Ticino / colore della terra / nel novembre del cinquantaquattro". Un mondo ormai estinto, dove stanno "al posto delle cartiere / le tristi cattedrali iperdiscount", ma che permane un rifugio in cui trovare momentaneo riparo.

E i ricordi aiutano anche ad affrontare la malattia, quando al poeta col granchio nella pancia "sembra di avere l’anima fragile / nel cilindro della Tac". Allora ripensa al prato falciato dall’Aurelio e ne sente l’odore. "Mi aggrappo a quel poco che ogni giorno mi bea: / così, vado spezzando i rami secchi / del vecchio bosso per ringiovanirlo". E a tratti succede che si "risveglia una nuova voglia di vivere / mescolata con la paura: sono Ungaretti in trincea". Quel Giuseppe Ungaretti di ‘Veglia’ che per un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la bocca digrignata non è "mai stato / tanto / attaccato alla vita". Perché quella contro la malattia è pure lei una guerra, "per combattere le cellule ataviche / che s’infiltrano attaccano minacciano"; e alla fine "manca solo il conteggio dei cadaveri".

Che rapporto ha Alberto Nessi con la morte? La raccolta è costellata dai segni lasciati da coloro che non ci sono più: "I trapassati mi aiutano a vivere", si legge in ‘1° novembre’.

«Per me gli assenti sono presenti e mi aiutano a vivere con i loro consigli, migliori di quelli dei viventi. Ho un rapporto sereno con la morte, come se fossi una foglia di carpino destinata a cadere. Certo, la morte è il male assoluto, ma non è solo mio, è di tutti. La morte è la grande eguagliatrice, la grande giustiziera».

Ecco dunque vagare sulla terra "le anime che percorrono i sentieri / e si nascondono nell’ombra dei cespugli / nel fondo delle forre di calcare / entrano nelle cascine, siedono sulle panche / bussano alla porta", c’è uno che viene in paese a trovare "la cameriera / amata di nascosto", ci sono "il bambino / caduto dalla lobbia, il ragazzo / travolto dal trattore nella scarpata, la maestra che scriveva poesie in rima baciata, la donna impazzita di solitudine". "E tutti / vengono a cercare tra le venature delle foglie / un viso che hanno amato sulla terra". Sono come Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone, l’ubriacone, l’attaccabrighe dell’‘Antologia di Spoon River’ di Edgar Lee Masters. Benché qui, al posto che dagli epitaffi sulle lapidi che ne raccontano passioni e vizi, riemergano nei castagni che mettono i fiori bianchi, nelle melodie del vento, nel focolare un tempo condiviso e fanno compagnia a chi rimane con le loro tracce lasciate nei ricordi dei sensi. "E dopo cena / viene a trovarmi, il Muto, col suo violino / viene a trovarmi dall’altro mondo".

Lo scorgiamo spesso sulla soglia tra gli opposti, l’autore. Come un pendolo che oscilla in continuazione sulla "linea che divide le nostre vite / dalla vita eterna". Tra lo schiudersi e lo sfiorire delle piante, la luce e il buio, l’alba e il crepuscolo, il cielo degli uccelli e delle farfalle e il sottosuolo delle talpe e dei fossili. Sta tra la gioia dell’acqua che invade il mattino con "la musica chiara dietro i monti" e un’ombra più pesante che già cammina "con zampe di lupo accanto a me". Sta in un chiaroscuro mutevole dove "i fiocchi nell’anima / hanno rime alternate e nerissimo / un merlo vola via improvviso scuotendo le ali". Intanto il tempo passa incidendo rughe sui volti, sottraendo affetti ai nostri giorni. Ma si prepara anche "la nuova vita che già scalpita" per mandare avanti il mondo. "Te ne vai, vita, di ramo in ramo / come il passero. Ogni tanto nel silenzio / un ramicolo si spezza ma poi / rinasce per miracolo". E sì, i miracoli avvengono, almeno quelli intimi che espandono lo spirito per la meraviglia. Avvengono nel leggere preziose poesie come quelle di Alberto Nessi. "Il sole se n’era andato dalle montagne / e d’improvviso tutto mi parve vano"; dietro gli amici perduti, tutti scomparsi, scomparse anche le donne amate, "e d’un tratto / tutto rutilò in una seconda bellezza".

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